Eagles of the Republic: recensione del film di Tarik Saleh – Cannes 78

Ultimo capitolo della trilogia egiziana di Saleh, il film affronta la propaganda del regime di Al-Sisi mescolando satira e thriller politico.  

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Con Eagles of the Republic, Tarik Saleh chiude idealmente la sua trilogia sulla corruzione e le dinamiche del potere nell’Egitto post-Mubarak, dopo El Cairo Confidential (2017) e Boy From Heaven (2022), premiato proprio a Cannes per la miglior sceneggiatura. Ancora una volta, il regista svedese di origini egiziane esplora le fratture politiche e sociali del suo Paese natale da lontano, dopo essere stato espulso dall’Egitto. Tuttavia, questa volta non mette al centro non l’apparato religioso o giudiziario, bensì l’industria cinematografica, trasformata in strumento diretto della propaganda di Stato.

 
 

Il potere vuole lo spettacolo

George Fahmy (Fares Fares), superstar del cinema egiziano, è un divo consumato: divorziato, distante dal figlio, amante delle giovani attrici, vive un’esistenza in equilibrio tra popolarità e superficialità. La sua vita cambia quando riceve una “proposta” dalle autorità: interpretare il presidente Abdel Fattah Al-Sisi in un film celebrativo del suo colpo di stato ai danni dei Fratelli Musulmani. George rifiuta, inizialmente. Ma in Egitto, anche il no è un atto politico — e a volte si paga caro.

Eagles of the Republic prende il via da questa promessa satirica che sembra voler demolire dall’interno le dinamiche del potere autoritario e la sua ossessione per il controllo narrativo. In un Paese dove il cinema è da sempre terreno di scontro ideologico, George diventa l’icona perfetta da piegare, usare, mettere in vetrina. E Fares Fares incarna con mestiere l’archetipo della star decadente, costretta a confrontarsi con l’ipocrisia del sistema che lo ha reso celebre.

Satira che si affievolisce, tensione che non esplode

La prima parte del film si muove sul terreno del grottesco, tra divi arroganti, funzionari zelanti e una produzione cinematografica che somiglia a una parodia di Stato. C’è sarcasmo, c’è ritmo, e c’è l’ombra lunga della censura che avanza scena dopo scena. Ma questa promettente miscela comica e politica non regge a lungo. Superata la metà, Eagles of the Republic abbandona l’ironia per un registro più drammatico, con svolte da thriller complottista che appesantiscono la narrazione senza mai scuoterla davvero.

A differenza di film come Boy From Heaven o El Cairo Confidential, che riuscivano a fondere genere e denuncia con maggiore tensione interna, qui Saleh sembra più prudente. Il conflitto tra arte e propaganda permane, ma viene trattato in modo didascalico, quasi come se il film stesso temesse le conseguenze del proprio messaggio. Ogni svolta — i ricatti, le minacce, i misteri sul passato del presidente — arriva nei tempi giusti, ma senza mai sorprendere. E la riflessione sulla responsabilità degli artisti in regime autoritario, centrale nel film, resta più dichiarata che interrogata.

Un film su come si fa (e si impone) un altro film

Uno degli elementi più interessanti di Eagles of the Republic è la sua mise en abyme: il film parla di un film che si sta girando, e nella finzione si moltiplicano le ingerenze del potere. Gli script vengono rivisti dai militari, le scene devono essere approvate, le comparse sono soggette a controlli. Il set diventa una zona di conflitto, dove la finzione serve a riscrivere la Storia in modo funzionale al regime.

Tuttavia, questa dinamica metacinematografica non viene mai portata fino in fondo. A differenza di Argo, Eagles of the Republic si limita a illustrare il meccanismo, senza mai smontarlo davvero. Persino i riferimenti cinefili — dai poster di classici egiziani ai richiami stilistici anni Settanta — risultano più decorativi che sostanziali.

Un’operazione europea su un dramma egiziano

Girato interamente in Turchia e finanziato da un consorzio europeo (Svezia, Francia, Germania, Danimarca e Finlandia), il film segna il ritorno di Saleh con un budget visibilmente superiore rispetto ai titoli precedenti. Eppure, la regia resta funzionale, televisiva, più interessata a far scorrere la trama che a scavare nei suoi sottotesti. Si ha spesso la sensazione che l’urgenza del discorso politico sia stata sacrificata in favore dell’accessibilità del prodotto, come se l’autore cercasse una via di mezzo tra il thriller da festival e il titolo da catalogo streaming.

La stessa figura del protagonista resta ambigua: George non è un eroe, ma nemmeno un complice. È una vittima privilegiata, talvolta lucida, talvolta passiva, e il film non riesce mai a scegliere se raccontarlo con empatia o distacco.

Eagles of the Republic
2.5

Sommario

Eagles of the Republic affronta un tema attuale e urgente — il rapporto tra arte e potere nei regimi autoritari — ma lo fa con una forma troppo prevedibile e una messa in scena poco incisiva. L’inizio promette satira e tensione, ma il racconto si appiattisce presto in un thriller scolastico. Saleh chiude la sua trilogia egiziana con un film onesto, ma meno coraggioso di quanto vorrebbe sembrare.

Agnese Albertini
Agnese Albertini
Nata nel 1999, Agnese Albertini è redattrice e critica cinematografica per i siti CinemaSerieTv.it, ScreenWorld.it e Cinefilos.it. Nel 2022 ha conseguito la laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l'Università di Bologna e, parallelamente, ha iniziato il suo percorso nell'ambito del giornalismo web, dedicandosi sia alla stesura di articoli di vario tipo e news che alla creazione di contenuti per i social e ad interviste in lingua inglese. Collaboratrice del canale youtube Antonio Cianci Il RaccattaFilm, con cui conduce varie rubriche e live streaming, è ospite ricorrente della rubrica Settima Arte di RTL 102.5 News.

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