Tommy (Anson Boon) è un giovane bullo perso tra droghe, alcool e autodistruzione. Dopo una notte di eccessi, si risveglia in una cantina, incatenato al collo. È stato rapito da una famiglia che sostiene di volerlo “rieducare”, correggere le sue devianze e offrirgli una nuova possibilità di vita. Sul televisore accanto a lui scorrono le immagini del suo passato: video di bravate, violenze e risse, alternati a filmati educativi su come comportarsi al meglio. È la prima fase del suo percorso di correzione, un rito di deumanizzazione e ricostruzione.
La casa in cui è prigioniero è abitata da Chris (Stephen Graham, visto recentemente nella serie Netflix Adolescence), il padre carismatico e autoritario; Kathryn (Andrea Riseborough), la madre dal sorriso calmo e lo sguardo glaciale; e il figlio Jonathan (Kit Rakusen). A completare la famiglia c’è Rina (Monika Frajczyk), domestica dell’Europa dell’Est, costretta a firmare un accordo di riservatezza.
Le origini di Good Boy: dalla Polonia allo Yorkshire
Il progetto nasce da un’idea del produttore Jerzy Skolimowski, che propose la sceneggiatura a Jan Komasa mentre il regista stava promuovendo Corpus Christi (2019). Il copione, inizialmente scritto in polacco e ambientato a Varsavia, è stato adattato in lingua inglese e trasferito nello Yorkshire per ampliare la portata internazionale del racconto.
Good Boy segna così il primo film in inglese di Komasa, che conserva però il suo stile riconoscibile: realismo morale, tensione psicologica e riflessione sulla responsabilità individuale.
La fiducia come prigionia
La famiglia rappresentata in Good Boy vive secondo un rigido codice “zero sprechi”: niente sperperi, niente eccessi, un ecosistema perfetto e inquietante dove anche l’educazione diventa un atto di controllo. “Trust isn’t black or white; trust is a process and it has to be built” (“La fiducia non è assoluta; la fiducia è un processo, che deve essere costruito pian piano”), afferma Kathryn, sintetizzando in questo modo il cuore del film.
La violenza non è mai gratuita, ma si insinua nella quotidianità, nella falsa dolcezza dei riti familiari. Il compleanno di Tommy, celebrato con affetto in un contesto assurdo, segna l’inizio del “processo di fiducia”: per la prima volta gli viene concesso di uscire all’aria aperta, pur restando incatenato.
Con il passare del tempo, la catena diventa più lunga, gli spazi più ampi. Il padre adottivo/guardia carceraria costruisce un sistema di anelli e lucchetti che permette a Tommy di muoversi per tutta la casa, “libero” ma sempre sorvegliato. Si tratta di un paradosso perfetto: la libertà concessa come strumento di controllo.
Qual è la vera prigione?
Good Boy interroga lo spettatore su un dilemma morale: è peggiore la prigionia imposta o quella che ci costruiamo da soli? Essere liberi può significare smarrirsi, diventare schiavi dei propri vizi e impulsi; essere limitati può voler dire, in un certo senso, essere salvati.
Komasa mette in scena questo dualismo con un equilibrio raro, muovendosi tra il dramma psicologico e la commedia nera. Il contrasto tra il mondo esterno – rumoroso, caotico – e la casa immobile, quasi sospesa nel tempo, diventa la metafora di una società che cerca la redenzione nel controllo.
Il cast di Good Boy e la catena dell’animo umano
Con Good Boy, Jan Komasa firma il suo film più spiazzante e maturo, un’opera che mette in crisi lo spettatore prima ancora del protagonista. L’interpretazione di Anson Boon dà corpo a un personaggio sospeso tra colpa e desiderio di redenzione, mentre Stephen Graham e Andrea Riseborough incarnano con inquietante naturalezza la banalità del male travestita da amore.
Komasa costruisce un racconto che oscilla tra ironia e orrore, ma trova la sua forza nella quiete disturbante dei dettagli: un gesto gentile, un sorriso, una catena che si allunga ma non si spezza mai.
Good Boy non è solo una storia di prigionia, ma una parabola sulla libertà come illusione collettiva — e sulla paura di vivere senza regole, né padroni. Un film interessante, lucido e disturbante, che lascia addosso il rumore del metallo: quello delle nostre stesse catene.
Good Boy
Sommario
Good Boy non è solo una storia di prigionia, ma una parabola sulla libertà come illusione collettiva.