Hill of Vision, recensione del film di Roberto Faenza

Hill of Vision recensione

Il nuovo film di Roberto Faenza esce in sala il 16 giugno. Si tratta di Hill of Vision, la storia pazzesca di un bimbo italiano analfabeta e scampato alle bombe della Seconda Guerra Mondiale che diventa un genetista e nel 2007 riceve il premio Nobel per la medicina.

 

Il regista, che è anche sceneggiatore e insegnante, ha una carriera cinematografica che affonda le sue radici nei suoi primi vent’anni di vita, e che gli ha fatto aggiudicare riconoscimenti di ogni sorta, tra cui diversi David di Donatello, Nastri d’argento e Globo d’oro.

Lo sguardo verso i più giovani, specialmente per le storie che partono dalle situazioni più drammatiche, lo hanno interessato più di una volta (Jona che visse nella balena, Un giorno questo dolore ti sarà utile), per quanto, a onor del vero, la varietà di tematiche e di tipologie di racconti affrontati da Roberto Faenza, siano decisamente eclettici.

Hill of Vision, la storia di Mario Capecchi

La storia di Hill of Vision nasce per caso. Un giorno, la produttrice Elda Ferri legge una notizia riguardante lo scienziato Mario Capecchi: avrebbe donato a un museo di Kyoto il suo amato cappello. Cosa significava un cappello per un uomo tanto famoso, colto e geniale? La decisione di approfondire il fatto e di intervistare il premio Nobel vengono da sé.

Così nasce il film sull’infanzia di Mario Capecchi diviso in due parti, in cui nella prima si racconta come è sopravvissuto ai bombardamenti in Italia, dove ad interpretare il piccolo protagonista è Lorenzo Ciamei, con Francesco Montanari che fa il papà Luciano Capecchi e Rosa Diletta Rossi nei panni di Anna, sua compagna. La seconda parte inizia quando incredibilmente sua madre (Laura Haddock), sopravvissuta ai campi di concentramento, lo viene a prendere in orfanotrofio per portarlo negli Stati Uniti e stare lì insieme agli zii (Edward Holcroft ed Elisa Lasowski) che vivono in una comunità di quaccheri.

Una fiaba assurda, per molti aspetti, quella di Mario Capecchi, che Roberto Faenza riporta per immagini con slancio e un sacco di ammirazione, costruendo scenari, ambientazioni e il susseguirsi degli eventi con affettuosa cura e parecchia ingenuità. La storia è sufficiente di per sé a destare le coscienze e soprattutto le speranze, ma il modo in cui viene riprodotta la indebolisce e, a tratti, banalizza.

Nella seconda metà del film ci trasferiamo negli Stati Uniti, Mario è cresciutello ed è il giovane Jake Donald-Crookes a calarsi nel ruolo. Un senso di avventura e di voglia di scoperta dà un po’ di colore alla narrazione, ma resta sempre tutto ben posizionato come in una dolce cartolina anni ’50 ed è necessario uno sforzo in più per focalizzarsi sulla parte importante: i sensazionali fatti storici nella vita di questo preadolescente. Tutti gli attori, durante tutta la durata della pellicola, si spostano come piccole marionette tirate da dei fili (con le sole eccezioni dei genitori di Capecchi, Haddock e Montanari, e Rossi, l’amante del padre) e, purtroppo, la stessa scrittura di alcune scene pare non tenere conto dell’atmosfera e la profondità che sarebbe fondamentale trasmettere.

Un’importante eredità pedagogica

Al netto, dunque, di una scarsa consistenza di carattere di tutto il film, resta l’eredità pedagogica della storia di questo ragazzo, e l’ennesima conferma di quanto sia in grado di fare un giovane quando gli viene trasmesso che è in gamba a prescindere da tutto. Oltre al fatto che, quando nessuno ti capisce, devi trovare qualcuno che finalmente riesca a farlo, e farti guidare da questi nei meandri delle strategie su come stare al mondo.

La cosa bellissima della storia di Mario Capecchi – ed è ammirevole che il regista lo voglia trasmettere nelle scuole – è quanto semplicemente faccia vedere che genio non nasce nessuno, anzi. Ma, a piccoli passi, e anche con la possibilità di cadere più volte, lo si può diventare eccome.

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