Il mio nome è Khan: recensione del film di Karan Johar

Il mio nome è Khan

Il mio nome è Khan è un viaggio indimenticabile in un mondo a noi lontano, ma anche così vicino. Perché finalmente l’ultima perla di Karan Johar è in grado di oltrepassare le barriere culturali che (purtroppo) hanno a lungo frenato l’approdo della cinematografia bollywoodiana nel nostro Paese. E lo fa con un film che arriva al cuore di qualunque spettatore, senza alcuna distinzione fra Oriente e Occidente.

 

E’ innegabile che in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, esiste un pregiudizio di fondo nei confronti del cinema bollywoodiano, da molti considerato fin troppo distante dalla (nostra) tradizione, per via delle coreografie colorate, dei canti e balli che lo contraddistinguono. Ma è anche vero che, se guardati senza alcun preconcetto, i film della cultura indiana risultano altrettanto godibili di quelli cui siamo abituati, essendo in grado di sviluppare temi semplici e relativi alla vita quotidiana (i rapporti familiari, ad esempio) in maniera mai banale, ma spesso in modo più autentico e genuino di quanto realizzano la cinematografia europea e hollywoodiana. E il cinema di Karan Johar è un perfetto esempio di tutto questo.

Benché senza raggiungere la perfezione del film da lui diretto che ha ottenuto il maggiore successo in patria, ovvero Khabi Khushi Kabhie Gham (Through Smiles or Through Tears), Il mio nome è Khan è un’opera assolutamente valida in ogni sua componente, dal cast alla regia, dalle scenografie alla colonna sonora. La mano di Karan Johar si riconosce, soprattutto nella struttura narrativa che vede contrapporsi a una prima parte più spensierata una seconda decisamente più drammatica. Non vi sono tuttavia balli e colori fluorescenti come nella tradizione indiana, ma tecniche di ripresa più vicine al cinema occidentale, con campi lunghi e panoramiche non sperimentate in precedenza dal regista. E l’impostazione di Karan Johar, che nella credibile rappresentazione dei rapporti umani mostra la sua grande sensibilità e concretezza, è riscontrabile in ogni scena e nel modo in cui dirige (ottimamente) gli attori.

Il mio nome è Khan

Il film si regge ovviamente su Shah Rukh Khan, interprete del protagonista musulmano affetto dalla sindrome di Asperger che, a seguito dell’ondata di razzismo post-11 settembre, intraprende un viaggio irto di difficoltà per incontrare il presidente degli Stati Uniti e dirgli personalmente “Il mio nome è Khan e non sono un terrorista”. L’attore offre un’interpretazione monumentale, di certo la più impegnativa della sua ventennale carriera, e l’intensa preparazione per il ruolo di Rizwan Khan è ravvisabile in ogni gesto, sguardo, espressione e atteggiamento del personaggio.

Per quanto sempre efficace in ogni interpretazione, in questo film in particolare Shah Rukh Khan sveste i suoi panni di attore fino a diventare in tutto e per tutto il suo personaggio. Benché quest’ultimo presenti alcune affinità con i personaggi di Forrest Gump e di Raymond in Rain Man, l’attore non imita i modelli offerti da Tom Hanks o Dustin Hoffman, bensì interpreta in maniera personale un diverso, che questa volta dovrà misurarsi anche con il fanatismo e la discriminazione razziale.

Seguendo una chiave di lettura religiosa, il film è un omaggio alla tolleranza in tutte le sue forme, incarnata da un protagonista che, nella sua purezza morale e genuinità, ricorda molto il principe Lev Myskin de L’idiota di Dostoèvskij. Caratterizzato da una bontà e un candore inediti in un mondo dominato dall’odio e dall’egoismo, Rizwan Khan è un uomo che non sa cosa sia l’individualismo, ma che nella generosità e amore nei confronti dell’altro realizza se stesso. E l’amore per Mandira, la bellissima hindu che sposerà, è per lui il raggiungimento del proprio posto nel mondo; un sentimento che cercherà di preservare nonostante la tragedia che si abbatte sulla loro vita felice. La sincerità e il rispetto di una promessa a lei fatta sono il leitmotiv della sua missione.

Oltre al protagonista, emerge l’ottima performance di Kajol nei panni di Mandira: la brillante attrice è in grado, come in ogni film da lei interpretato, di recitare magnificamente sia le parti più briose sia quelle più drammatiche e ricche di pathos. E anche ne Il mio nome è Khan compare la particolare alchimia tra Kajol e Shah Rukh Khan, la coppia più amata di Bollywood, la cui ultima collaborazione risaliva a nove anni fa, in un’altra acclamata pellicola diretta da Karan Johar.

Sebbene, a differenza degli altri film del regista, non compaiano riferimenti più o meno impliciti alle altre pellicole da lui dirette (come motivetti musicali o nomi di personaggi), in alcuni passaggi è possibile notare qualche similitudine con alcuni spunti presenti in altri film bollywoodiani: ad esempio, l’idealizzazione dell’America come il paese in cui è possibile realizzarsi (ma anche un paio di riferimenti a un’altra pellicola che vedeva protagonista Shah Rukh Khan, ovvero Swades, We the people).

Nello sviluppare tematiche scottanti e attuali come il fanatismo religioso e il razzismo, la minaccia del terrorismo le mistificazioni della giustizia, Il mio nome è Khan non cede al pietismo e al sentimentalismo come si potrebbe temere in partenza. Al contrario, il film esplora tali tematiche seguendo la prospettiva del protagonista, che crede in una morale semplice ma non per questo banale, secondo cui “i buoni fanno le cose buone e i cattivi fanno le cose cattive”. Benché tale principio possa apparire semplicistico, occorre ricordare che esso viene adottato da una persona affetta da una disfunzione mentale, per cui l’etica risulta necessariamente semplificata per essere tale.

In definitiva, Il mio nome è Khan stimola la riflessione, commuove ma diverte anche, in una stretta commistione fra commedia e tragedia come solo il cinema bollywoodiano sa fare. Di certo non si può rimanere indifferenti al messaggio di speranza di cui Il mio nome è Khan si fa portavoce, in un momento buio per l’umanità in cui proprio di fiducia e speranza per l’avvenire abbiamo bisogno.

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