Il Responsabile delle Risorse Umane: recensione

Il Responsabile delle Risorse Umane

A presentare Il Responsabile delle Risorse Umane del regista israeliano Eran Riklis (che ha diretto nel 2008 il film “Il giardino dei limoni” ), ci sono già il celebre e omonimo romanzo di Abraham B. Yehoshua (dal quale è partito l’adattamento cinematografico di Riklis), nonché il Premio del Pubblico del Festival di Locarno 2010 e il primo premio cinematografico israeliano, l’Ophir, che la pellicola si è già aggiudicati.

 

Eppure Il Responsabile delle Risorse Umane di Eran Riklis non si risparmia dallo stupire. In un commento a caldo si potrebbe dire che è una pellicola nella quale tutto è dove non dovrebbe essere, condizione edificata con sagacia dalle scelte di regia, che si sono allo stesso tempo curate di non lasciar spazio a disomogeneità, pesantezza e incongruenza del tessuto narrativo. Il Responsabile delle Risorse Umane si apre con un velo di apparente ordine e metodicità che lentamente va a diradarsi,  trasportando lo spettatore, ma soprattutto gli interpreti,  a chiedersi quanto di quel che è da poco apparso sia sul serio consistente e privo di preconcetti. Ammalianti sono sia la sensibilità che la discrezione attentissima con la quale tutto questo inizia a realizzarsi e distinguersi.

Il Responsabile delle Risorse Umane, il film

Il regista scava infatti con minuzia prima di condurre a quel che ha da dire e di lasciar la parola ai suoi protagonisti…come se attendesse egli per primo che siano pronti, protagonisti quanto spettatori, ai propri momenti giusti, che in ogni caso non si impongono con rapide epifanie,  grandi tragedie, o prese di coscienza spasmodiche, ma piuttosto con graduali,  verosimili e maturi piccoli passi.  La pazienza e la gradualità sono quel che rendono finalmente protagonisti ognuno dei personaggi , che conquistano dunque il loro ordine reale e calibrato all’interno della storia.

Ma prima dell’equilibrio, rimane una storia che si divarica tra: un padre che vorrebbe esser presente nella vita di sua figlia, ma che si ritrova a far da genitore a un giovane ribelle orfano di madre, per conquistare la cui fiducia rischia di perdere quella della sua stessa figlia; un giornalista che, in lotta contro il cinismo e la disaffezione che ritiene essere caratteristica specifica del sistema aziendale, si scontra soprattutto con i propri limiti e le proprie amoralità; un capro espiatorio messo alla gogna, che dimostra quasi più umanità di chi lo accusa; un amore che resiste, proprio perché fondato su due cuori che parlano fisicamente due lingue diverse, e infine una donna, che unico artefice dell’incontro di tutti gli altri personaggi, forse è proprio l’unica che nessuno conosce e della quale nessuno conosce nulla….ecco appunto, come si diceva in apertura, un film nel quale ogni cosa viene messa nel posto sbagliato ma che, in ragione di questa scelta e nonostante il film duri quasi due ore, riesce a catturare completamente l’attenzione.

Dietro a tutto questo, velato, il conflitto eterno dei popoli palestinese e israeliano, costretti a sfiorarsi e a guardarsi; non mancano d’altra parte brevi , saltuarie ma puntuali note sul terrorismo che, artefice dell’avvio narrativo, ritorna ogni qual volta i personaggi si confrontano con la quotidianità. Pochi e comunque leggeri i momenti di grigia malinconia; forte e determinata l’immagine dei personaggi e degli interpreti. Di spirito e mai scontati i momenti di umorismo ed ironia. Insomma un film splendidamente dosato. Dosato nei tempi, nei toni, nei messaggi e nelle aspettative. Bellissimo.

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