Jeong-Sun, recensione del film di Jihye Jeong

Il film di Jihye Jeong è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022.

Jeong-Sun recensione

Ci sono universi che prendono forma dal basso, da quello sguardo che si innalza verso il cielo, ma con i piedi incatenati al suolo. Sono anime che aspirano in alto, a una felicità promessa, ma mai mantenuta dalla forza di un destino scomodo, doloroso, umile. Jeong-Sun è il canto degli ultimi, un poema degli ignorati scritto con l’inchiostro tinto nel neorealismo, e pennellato di attualità.

E così, nell’opera prima di Jihye Jeong si ritrovano i fantasmi che hanno abitato le opere di Rossellini e De Sica (senza dimenticarci quelle regalateci da un cult come Parasite); sono esistenze ordinarie, ricche nell’animo e umili nel contenuto sociale. Ma tra gli inframezzi di un’esistenza che pare vivere e respirare all’accensione di una cinepresa, scorre il senso di paura e dolore che colpisce l’animo femminile, urtandone la sensibilità e deteriorandone la sicurezza. È il timore di perdere il controllo del proprio corpo, di tramutarsi in carne da macello per il consumo voyeuristico altrui. Racconto degli ignorati, e denuncia sociale di un male che incancrenisce l’essere umano, sviluppandosi in metastasi lungo dita che scorrono e occhi che scrutano video virali, si muove nell’opera l’ombra distruttiva del revenge porn e del body shaming.

Jeong-Sun non si eleva soltanto a prestanome di una pellicola tanto semplice, quanto umanamente commovente, ma anche portavoce di tante lacrime nascoste, visi celati sotto cuscini di vergogna, corpi depredati della propria intimità, ed esistenze spogliate della propria dignità.

Jeong-Sun, la trama

Jeong-sun (Kim Kum-soon) è una donna di mezza età che lavora in una fabbrica. Attacca quando fuori è ancora buio, accompagnata ogni giorno dalla figlia (Yun Seon-a), prossima al matrimonio. Di buon umore e umile estrazione, Jeong-sun finisce per instaurare una relazione con un nuovo collega, il coetaneo Yeong-su (Cho Hyeon-woo). Un legame felice e tranquillo, fino a quando l’uomo non decide di immortalarla in un video che cambierà l’esistenza di tutti.

Il canto degli ultimi

È il teatro dell’esistenza quello allestito da Jihye Jeong nel suo Jeong-Sun. Una cinepresa fissa, granitica, la sua, di chi si limita a osservare lasciando che siano i personaggi a muoversi e infondere linfa vitale alla propria opera. È un cinema che si nasconde dietro la potenza della quotidianità, che reduplica lo scorrere della realtà al di là dello schermo, aderendo perfettamente a quell’ideale di finestra sulla realtà agognata dal cinema classico. Ma nell’universo filtrato dall’obiettivo di Jihye Jeong non vi è alcun intento edulcorante dell’universo colto in essere; ancorandosi a uno sguardo che tutto coglie e registra dal basso – prendendo cioè corpo da quel sottosuolo antropologico da cui i suoi stessi protagonisti prendono vita – la cinepresa di Jihye Jeong si fa penna adattante un saggio sullo sfruttamento operaio e del corpo femminile in un paese come quello sud-coreano ancora profondamente maschilista e dominato da logiche patriarcali.

Duplice colpo al cuore

Lucido, onesto e ferocemente sincero, il film è una rappresentazione diretta, ai margini del documentario, un quadro sociale imbastito con cura dalla propria autrice. Lontano da ogni manierismo stilistico, e da virtuosismi registici, la macchina da presa stila un discorso semplice nel linguaggio, e altrettanto facilmente comprensibile nella sua lettura. Jeong-Sun scorre sul binario di un’esistenza ordinaria, ma è proprio grazie a questa esacerbata normalità, che la sua protagonista si eleva a perfetto testimone, e massimo rappresentante, di quelle mani che soffocano, e dossi che rallentano, la serenità delle donne tanto in Sud-Corea, che nel resto del mondo.

In Jeung-Sun vivono due anime distinte, e all’interno di esse scorrono duplici moniti di carattere sociali volti a schiaffeggiare un sistema ambizioso, che tanto chiede e poco offre. Ingenua, mite, e perlopiù preoccupata per l’abito da sposa della figlia, la donna si fa guida dantesca tra le fila di un sistema aziendale che al merito e alla gratificazione personale, preferisce un impianto dittatoriale e psicologicamente degradante. Tra notti spese al lavoro, e minacce da parte di un caporeparto insoddisfatto della propria esistenza, la Jeong-Sun operaia vive comunque di un certo ottimismo che la trascina tra i corridoi della fabbrica a testa alta e il sorriso stampato in faccia. È una donna che si accontenta delle piccole cose; una calamita umana verso cui la cinepresa della Jeong non riesce a distaccarsi, inseguendola a debita distanza e privandosi di movimenti che ne denuncerebbero la presenza.

Quella che subentra nella seconda parte dell’opera è invece una donna colpita nell’animo e depredata della propria intimità. Quella relazione tenuta nascosta, quasi adolescenziale, con il nuovo collega, si tramuta in culla di una condivisione social che infanga la reputazione della protagonista, tra commenti al vetriolo e giudizi taglienti come lame affilate. Il viso prima sorridente si tramuta in una maschera del dolore, sfregiato dal tradimento e appesantito da una mole di sguardi che osservano e sparlano alle spalle. Il corpo di Jeong-Sun si fa così statua granitica, un automa che si muove nello spazio d’azione con meccanicità, attivata soltanto da un’audacia e da una sete di rivendicazione personale che tutto prende e distrugge con la forza della propria rabbia. Un cambiamento reso tangibile e tormentato dall’interpretazione profonda e convincente di una Kim Kum-soon perfettamente in parte. Non sembrano esistere confini tra l’attrice e il proprio personaggio: un’unione perfetta che trascina con naturalezza lo spettatore all’interno della vita della donna, assimilandone gli attimi di felicità, e interiorizzandone i fulminei attimi di dolori.

Ambienti che modellano, sguardi che distruggono

Affidando alla potenza di campi lunghi, e piani medi, la regista coglie e staglia i propri personaggi all’interno di un ambiente sociale e lavorativo di cui essi si elevano a parte integranti e tessere imprescindibili alla sua perfetta resa visiva. Gli uomini e le donne che scorrono davanti alla cinepresa vanno oltre la propria natura umana, per legarsi in maniera armonica al mondo che li circonda; sono universi che li modellano come cera malleabile, e li influenzano determinandone scelte e conseguenze di azioni o pensieri. Sono ambienti illuminati da una luce naturale, sebbene colorata da tinte fredde, cromatismi gelidi, che tutto rimandano a legami interpersonali pronti a recidersi e spezzarsi, proprio come iceberg bruciati dal fuoco della vendetta.

Cristallizzata in una circolarità eterna, che vive e si sviluppa lungo una reiterazione di eventi elevati a riti quotidiani, l’esistenza di Jeong-Sun è una giostra pronta a ripetere ogni giorno, in maniera sempre uguale e sempre diversa. L’entrata e l’uscita dalla fabbrica, le scatole da chiudere in catena di montaggio, i rumori del traffico urbano, l’incontro con l’ubriaca al di fuori del motel, sono punti fermi nella vita dei personaggi; momenti colmi di sollievo perché carichi di una quotidianità priva di sorpresa, e per questo di eventuali minacce.

Inserendosi come un fulmine a ciel sereno nella tranquillità della propria, ordinaria, esistenza, la condivisione di un filmato intimo, dove il corpo si mostra e la bocca canta, è un punto di svolta, un ribaltamento interiore di una linea che scorre piatta, un extrasistole che irrompe defibrillando intere esistenze; è l’inedito che distrugge, per poi ricostruire, un nuovo tempio vitale, nell’attesa di un ultimo canto liberatorio, in cui la catarsi si sveste di violenza per esplodere di speranza. Una speranza illusoria, forse, ma sufficiente per innalzare il punto di ripresa di una cinepresa che dal basso si alza verso l’alto, verso quel cielo in cui volare liberi senza pensieri, senza restrizioni, senza mani che scorrono su cellulari, o labbra che proferiscono ordini con saccente, tossica, mascolinità. 

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