La seconda via, la recensione del film di Alessandro Garilli

Un film toccante che pone all'attenzione del pubblico una storia vera comune a molte famiglie italiane.

La seconda via recensione

Con una distribuzione mirata e una uscita non casuale, arriva nelle sale italiane La seconda via, lungometraggio d’esordio di Alessandro Garilli, qui anche sceneggiature di una storia che si annuncia come il primo film sugli alpini nella ritirata di Russia. Dopo l’uscita nei cinema dal 26 gennaio (distribuito da RS Productions, che lo presenta con QualityFilm e Angelika Vision in collaborazione con Rai Cinema), la vita produttiva di questo progetto dovrebbe continuare poi con un percorso pensato per le scuole medie, inferiori e superiori.

 

La seconda via, l’obbiettivo del film

L’obiettivo, quello di ricordare una storia che ha toccato molte famiglie italiane in occasione dell’ottantesimo anniversario della ritirata di Russia e della Prima Giornata Nazionale della Memoria e del Sacrificio Alpino (stabilita dalla legge n. 44 del 5 maggio 2022, approvata all’unanimità dal Parlamento). Una data scelta perché quella della battaglia di Nikolajewka, combattuta nel 1943 dagli Alpini durante la ritirata dal fronte russo, che è anche alla base della vicenda che vediamo sullo schermo.

La battaglia di Nikolajewka e il Sacrificio Alpino

Gennaio 1943, fronte russo. La compagnia 604 si trova costretta ad attraversare la steppa per sfuggire all’accerchiamento nemico. Quando sopraggiunge la notte, però, di tutta la 604 non rimangono che sei alpini, più un mulo, che avanzano in silenzio sotto una neve incessante mentre la temperatura tocca i 40 gradi sottozero. L’esasperante cammino, compiuto in quel deserto bianco, spinge gli uomini a perdere la percezione del tempo e, passo dopo passo, li porta a rifugiarsi in una dimensione onirica dove esiste una “seconda via ” fatta di sogni, incubi e ricordi. Una lunga notte di guerra e un viaggio nell’umano, fra balke, boschi, laghi di montagna, villaggi infuocati, spiagge innevate e campi di grano.

Una fotografia d’altri tempi, troppo moderna

I produttori insistono sul fatto che “in un’epoca dominata dall’audiovisivo non possedere un’immagine è come cancellare un ricordo”, e per il regista corrispondeva a “una urgenza umana” il poter “asciugare le lacrime delle 100.000 madri che non han visto tornare i loro figli dalla Russia”. Una pagina di storia che anche Olmi – pare – avesse voluto trattare all’esordio e che qui e lì torna in film di altro genere (come il Letto a tre piazze di Steno con Totò protagonista), ma che anche in questo caso – esaurito il valore documentarle e la citazione – non sembra potersi dire raccontata compiutamente.

In parte per le difficoltà oggettive incontrate, sia per quanto riguarda le riprese nella neve sia per la mancanza di documentazione storica o immagini alle quali rifarsi, ma anche per alcune scelte di regia e narrative. Il viaggio a ritroso dei nostri soldati – allora alleati dei nazisti e inseguiti dalle truppe sovietiche – rende sicuramente la “perdita della concezione del tempo” e la ‘Seconda via‘ di ricordi e speranze che questi esuli si trovarono a percorrere oltre a quella durissima nel gelo, ma il film risulta più un risarcimento – apprezzato, a sentire le prime testimonianze – per gli eredi di quei caduti che qualcosa di diverso.

Fotograficamente, le immagini del deserto bianco che ci accolgono e accompagnano sono la cornice perfetta per lo sviluppo della ritirata dei sei protagonisti, ma tutto resta fin troppo patinato, senza mai rendere davvero la sofferenza, la durezza di quei momenti, di quella “naja balorda“. Tanti dettagli (le divise integre, le sciarpe intonse, le contadine depilate) e una rappresentazione parziale, se privata delle necessarie premesse, ne fanno qualcosa di più simile a una ricostruzione da reportage televisivo che a una cronaca credibile, nonostante l’impegno profuso, evidente anche nella ricerca linguistica e delle musiche (spesso dominanti, visto i lunghi silenzi).

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Mattia Pasquini
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la-seconda-via-la-recensione-del-film-di-alessandro-garilliTanti dettagli (le divise integre, le sciarpe intonse, le contadine depilate) e una rappresentazione parziale, se privata delle necessarie premesse, ne fanno qualcosa di più simile a una ricostruzione da reportage televisivo che a una cronaca credibile, nonostante l'impegno profuso, evidente anche nella ricerca linguistica e delle musiche (spesso dominanti, visto i lunghi silenzi).