di Aurelio Vindigni Ricca
L’ultimo appuntamento con Todd Haynes su grande schermo, esattamente due anni fa al Festival di Cannes, ci aveva riportato negli Stati Uniti negli anni ’50. Un’epoca tanto patinata quanto piena di preconcetti, un’atmosfera in cui due donne scoprivano il loro amore reciproco e carnale facendo scandalo e anticipando di molto i tempi. Oggi il regista di Carol fa un passo indietro e mette da parte quel cinema adulto, passionale, in favore di un racconto per ragazzi dall’alto valore sociale. Un avventuroso viaggio alla ricerca della “stanza delle meraviglie”, una La stanza delle meraviglie per l’appunto, in compagnia di Ben e Rose, due ragazzini cresciuti in epoche diverse che condividono una particolare condizione: l’essere sordi. Il primo è un bimbo degli anni ’70, la seconda una ragazza di fine anni ’20, le cui storie hanno certamente un filo rosso da spartire – ma lasciamo che sia lo stesso Todd Haynes a farvi scoprire come.
Al di là delle due storie montate in modo alternato, a colori e in bianco e nero, e raccontate come una favola della buonanotte prima di dormire, il regista lavora con minuzia con le scenografie e con il sonoro, per metterci quanto più nei panni dei due ragazzi. Le vicende di Rose diventano un vero e proprio film muto, il viaggio di Ben invece risuona come un disco Rhythm and blues, mescolando tutto si ottiene un’esperienza sensoriale da provare nel buio della sala. La stanza delle meraviglie gode infatti di una sensibilità fuori dal comune, è capace di far provare al suo pubblico ciò che i suoi giovani protagonisti provano, senza voci e suoni d’ambiente. Proprio per questo motivo il valore sociale del film è inestimabile, spiega in modo aggraziato la sordità a chi non sa minimamente cosa si prova, inoltre lo fa con un comparto tecnico impeccabile.
Chi conosce Todd
Haynes del resto sa bene con quale eleganza sia solito
confezionare i suoi lavori, all’interno dei quali ogni inquadratura
si trasforma in diamante – anche grazie al talento di
Edward Lachman, storico direttore della fotografia
dello stesso Haynes. Formalmente La stanza delle
meraviglie è forte di un linguaggio semplice,
lineare, che va sempre al sodo delle questioni, probabilmente anche
per colpire un target giovanissimo. Forse questo è l’unico vero
problema dell’opera, che nella sua seconda ora diventa
eccessivamente didascalica e si affida alla voce off (e alle parole
scritte) per snocciolare i nodi della storia. Questo però rende
accessibile il film a tutti, una favola della buonanotte – come
dicevamo sopra – da raccontare ai più piccoli prima di andare
a letto, utile a insegnare i valori dell’uguaglianza e del
rispetto, ad accettare la diversità e a comprenderla fino in fondo.
Una piccola stanza della meraviglie all’interno della quale sono
raccolte le bellezze della nostra umanità interiore, il nostro
smisurato amore, l’affetto dell’amicizia profonda – da attraversare
in punta di piedi.