Realizzare oggi un film che sia originale dalla prima riga di sceneggiatura sino all’ultima è impresa quasi impossibile, e Arnaud Desplechin con il suo ultimo lavoro Le fantome d’Ismael neppure ci prova a farlo. Il suo cinema ha sempre puntato, e punta ancora adesso, a tutt’altro: a una scrittura complessa, emozionale, giocosa, a una direzione solida degli attori, ad inquadrature in grado di raccontare e creare atmosfere anche in silenzio.
Se Olvier Assayas allo scorso Festival di Cannes, il numero 69, ha raccontato i fantasmi attraverso gli smartphone e gli abiti di lusso, l’autore di Racconto di Natale sceglie oggi temi più inflazionati come l’amore, la nostalgia, l’arte, i sogni infranti e perduti, il riscatto, scegliendo un registro a dir poco particolare. Le linee di trama ci sono, ma non sono affatto fondamentali, ci trasportano avanti e indietro nel tempo come a voler risvegliare ricordi ormai sopiti, lo sfondo perfetto per un racconto fatto di volti, di carne e sangue, di passione e occasioni perdute.
In
Le fantome d’Ismael Charlotte è scomparsa da
vent’anni, riposa in una tomba vuota e umida, poiché il suo corpo
in realtà non è mai stato ritrovato; defunta solo per comodità
legale, per egoismo di chi l’ha cercata per anni, invano. Charlotte
invece è viva e vegeta, è soltanto scappata a vent’anni da una vita
che la rendeva infelice, appesantita, e ora ha deciso di tornare
senza dire niente a nessuno. Della sua vita passata sono rimaste
soltanto macerie, un marito distrutto e un padre anziano ormai
senza speranza, legato solo a vecchie e sfocate fotografie, è però
forte la sua voglia di ricostruire tutto dalle fondamenta.
Ismael, quello che era l’uomo della sua vita, si è ora risposato, ma poco importa con il grande piano di Charlotte, anche perché è forte il dubbio che tutto questo – il ritorno in grande stile alla vecchia vita – sia soltanto mentale, ideale. È sempre Ismael, artista e regista nevrotico, schizzato e trasandato, a inventare tutto con minuzia di dettagli. Questo Desplechin non ce lo dice in modo esplicito, ma basta rimettere insieme tutti i pezzi del puzzle che abbiamo a disposizione, uniti insieme soprattuto nel finale d’opera, durante il quale lo stesso protagonista paragona il suo film-dentro-il-film – e così la sua vita – ad un dipinto di Jackson Pollock. Nelle linee apparentemente astratte e insensate si nasconde invece la ragione, la poesia, la linearità della vita.
Probabilmente per
questo motivo il regista francese confeziona un film slegato in
superficie, un omaggio al cinema noir e alla “nuova ondata”
d’oltralpe con uno scopo ben preciso fra le righe, diretto con
rigore stilistico e licenze poetiche sparse qua e là. La sua
macchina da presa danza, gioca, gira su se stessa e crea dipinti
dinamici, atmosfere emozionanti e momenti passionali, tutti
rafforzati dagli ottimi interpreti. Charlotte
Gainsburg e
Marion Cotillard sono nemiche eppure complici,
opposte eppure simili, portano a compimento la loro missione con
grazia e sensibilità, soprattutto la prima – a cui è affidato
l’intimo l’epilogo. A dirigere l’orchestra però è Mathieu
Amalric, una vera e propria scheggia impazzita che genera
paure e ricordi, fantasmi e desideri usando il corpo e la voce.
Le fantome d’Ismael finisce dunque per essere un viaggio mistico nella mente del suo protagonista folle e traumatizzato, dei suoi incubi ricorrenti e vividi, narrato con un linguaggio cinematografico che colpisce ognuno in modo soggettivo. Un inno visionario al fluire irrefrenabile della vita, che ha sempre un piano B e un modo per risorgere dalle sue stesse ceneri.