Leatherface: recensione del film con Lily Taylor

Leatherface

A meno di un mese dalla scomparsa del compianto regista Tobe Hooper, creatore dell’intero universo orrorifico di Non Aprite Quella Porta, esce l’ultimo capitolo della saga: Leatherface.

 

Sebbene Hooper abbia fatto in tempo ad esserne produttore esecutivo, il film si distacca di molto da quello che fu il capostipite nel 1974. La regia viene affidata ad Alexandre Bustillo e Julien Maury, che prendono la decisione – a conti fatti azzardata – di risalire alle origini del mito di “Faccia di Cuoio” (in inglese Leatherface). Il film cerca di spiegare come questo assassino così feroce sia diventato tale, partendo da un’infanzia traumatizzata da una famiglia folle e dalla seguente reclusione in un centro psichiatrico minorile.

Negli anni ’70, Tobe Hooper aveva creato un  microuniverso che funzionava perfettamente. La storia prendeva spunto da fatti realmente accaduti, e cioè dall’arresto di Ed Gein, maniaco omicida del Texas che aveva fatto stragi di vittime e ne aveva utilizzato la pelle per conciare elementi di arredo della sua casa o per farne maschere da indossare. Quello che fu rivoluzionario all’epoca, fu l’uso del genere mockumentary – oggi così inflazionato – che Hooper usò per rendere tutto più credibile e che è stato ripreso solo nel remake del 2003 (l’unico riuscito dell’intera saga).

Leatherface dal suo canto non brilla affatto per originalità. Sebbene cerchi di discostarsi dai film che lo precedono, finisce invece per amalgamarsi alla massa non tanto dell’universo-Non Aprite Quella Porta, quanto dei più banali film horror di sempre. In un melting pot di luoghi comuni come il manicomio, l’elettroshock, la necrofilia, ecc ecc, la trama di Leatherface cerca – invano – di sorprendere lo spettatore, enucleando diligentemente tutti quei simboli che sono diventati negli anni l’emblema della saga: la sega elettrica, la pelle ricucita, i riti animisti. Un’opera che sa di fan-service, dove il sangue scorre a fiumi sin dal primo frame ma che non si preoccupa di avere un senso o di appassionare veramente lo spettatore.

- Pubblicità -