La selezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma 2025 ha trovato il suo gioiello in Hamnet – Nel Nome del Figlio, il nuovo film di Chloé Zhao. Già premio Oscar per Nomadland e reduce dal discreto disastro di Eternals, la regista si misura con un’impresa ambiziosa: trasformare in immagini il mondo interiore e sensoriale del romanzo di Maggie O’Farrell (2020), fatto di silenzi, di percezioni e di una natura profondamente viva. Qui emerge subito uno degli aspetti più affascinanti del film: la sua apertura naturalistica, che riesce a evocare – per vie visive e ritmo – lo spirito del cinema di Terrence Malick. Gli alberi, la luce che filtra tra le fronde, il terreno segnato dal passare del tempo, diventano non solo ambientazione ma personaggi silenziosi, custodi e riflessi dello stato d’animo dei protagonisti, testimoni.
Questo sguardo «dalla natura» parla in modo molto chiaro del film: non è una ricostruzione storica puntuale, non è una biografia pedissequa, bensì una messa in scena della sofferenza, della vita familiare, del sacrificio, del lutto – tutto filtrato attraverso l’esperienza della perdita e della trasformazione. Il bosco, in questo senso, appare come luogo liminale, tra fertilità e morte, tra l’originario e il finito: il film lo chiarisce sin dalle prime sequenze, rendendo visibile una spiritualità dell’immanenza.
Amore, matrimonio e tribolazioni: la quotidianità nobile di una famiglia
La prima parte del film si sofferma sulla storia d’amore tra William (interpretato da Paul Mescal) — giovane insegnante di latino — e Agnes (Jessie Buckley), “figlia della foresta”, con un alone mistico e ribelle che la comunità percepisce come straniante. Zhao dedica tempo all’unione non convenzionale della coppia, alla maternità, al contesto familiare che si costruisce con il passare delle stagioni. Il film assimila lo spirito bucolico della sua protagonista e lo coniuga con un intimismo da casa colonica, da focolare domestico che risiede nel cuore della natura.
Questo lavoro di messa in scena non è privo di tensioni: la seconda parte del film avrebbe forse beneficiato di maggior tempo per approfondire il personaggio che dà il titolo al film e effettivo slancio alla vicenda — il piccolo Hamnet — prima di raccontarne la morte, sospesa tra misticismo e mistero. In questo modo lo spettatore sarebbe potuto forse entrare più profondamente nello squarcio che la perdita avrebbe prodotto. Il rischio è che, in alcuni momenti, la storia sembri procedere con una simmetria “premeditata” verso la tragedia, piuttosto che emergere dalla tensione della quotidianità. Ma è proprio in quest’ottica che il film reclama il suo statuto: non tanto una cronaca quanto un rito visivo e emotivo. Anche perché interviene poi Buckley, con la sua intensità, a trascinare lo sguardo e le viscere di chi guarda, dentro la tragedia.
Il lutto, l’assenza e la creazione: verso un epilogo carico di catarsi
È nella terza parte che Hamnet si apre con maggiore forza: la scena della perdita, il rituale del lutto, la trasformazione del dolore in creazione (e qui il legame alla tragedia di Hamlet appare chiaro) spingono lo spettatore in una dimensione di commozione autentica. Il tessuto emotivo del film riesce a distruggere attraverso la vista, così come fa quell’ultimo sguardo dolente e finalmente libero di Agnes in una delle sequenze più toccanti dell’anno cinematografico: una madre che perde il figlio, un padre che cerca di dare senso al dolore attraverso l’arte, una coppia che si ritrova.
Non è un finale consolatorio ma di catarsi: ciò che era privato diventa universale. Jessie Buckley brilla in questo frangente come protagonista assoluta: la sua Agnes è carne, spirito, natura e ferita insieme. È proprio grazie a queste sequenze che Hamnet riesce a superare gran parte dei suoi limiti e conquistare una legittimità emotiva che veste con nobiltà le proprie immagini e le proprie ambizioni.
Qualche riserva, ma con la certezza di un’esperienza da vivere
Come ogni film “ambizioso”, Hamnet non è immune da difetti. Uno dei punti che più emergono è la percezione di un andamento non perfettamente equilibrato: la lentezza può in certi momenti appesantire e la costruzione simbolica – specie nel secondo atto – può apparire un po’ sovrastrutturata. Inoltre, alcuni spettatori potrebbero avvertire una certa distanza nella focalizzazione narrativa: se la parte iniziale dedica molto tempo alla costruzione del rapporto amoroso e familiare, forse si dilunga a scapito del cuore del racconto che è la perdita stessa.
Se dunque da un lato si può rimproverare a Zhao di aver optato per una forma di ‘prestige drama’ che talvolta si avverte, dall’altro è proprio l’uso di tale forma — con tutti i suoi rischi — che le consente di raggiungere momenti di assoluta potenza visiva e emotiva. È questa tensione tra forma e sentimento che rende Hamnet un film “imperfetto” ma sinceramente ambizioso.
Un film da
sentire
Hamnet è un film che richiede disponibilità, lentezza, e cuore: non è pensato per l’intrattenimento puro, ma per la riflessione e la partecipazione emotiva. Se amate il cinema che “respira”, che vive di silenzi e paesaggi interiori, che mette al centro i sentimenti più fondamentali — amore, perdita, creazione — allora sarete ripagati. La regia di Chloé Zhao, il cast capitanato da Jessie Buckley e Paul Mescal, e l’atmosfera bucolica e sospesa lo elevano oltre la semplice trasposizione letteraria: Hamnet diventa un’esperienza sensoriale, un invito a toccare il fondo del dolore per risalire, insieme, alla meraviglia della vita e dell’arte.
Hamnet si lascia amare, si lascia assorbire, e lascia con la nostalgia di un bosco che sussurra e di vite che, nel loro quieto vibrare, costruiscono capolavori.
Namnet
Sommario
Hamnet si lascia amare, che si lascia assorbire, e che dopo lo schermo lascia con la nostalgia di un bosco che sussurra e di vite che, nel loro quieto vibrare, costruiscono capolavori.