Produttrice di lungo corso per Sean Baker (Anora, Un sogno chiamato Florida) e co-regista di Take Out, Shih-Ching Tsou firma con Left-Handed Girl il suo primo lungometraggio da sola, pur restando in dialogo strettissimo con il sodale: Baker co-scrive e soprattutto monta, imprimendo quel ritmo spinto che conosciamo. Il risultato è un film che porta addosso i tratti “familiari” (sguardo sugli invisibili, precarietà luminosa, bambini come bussola morale) ma che prova a prendersi uno spazio personale, più legato a memorie, cultura e dinamiche di genere del contesto taiwanese. L’accoglienza festivaliera lo conferma: esordio alla Semaine de la Critique di Cannes e percorso internazionale, con l’ulteriore peso specifico della candidatura taiwanese agli Oscar.
Taipei come parco giochi (e campo minato)
Tsou immerge lo spettatore nel ventre dei mercati notturni di Taipei: scooter che sfrecciano, insegne acide, vapore delle cucine, contrattazioni, odori. È un dispositivo sensoriale che fa da habitat alla piccola I-Jing, alla sorella maggiore I-Ann e alla madre Sho-Fen, tornata in città per riaprire una minuscola cantina di street food e rimettere insieme la vita. La regia abbraccia la frenesia urbana e la traduce in messa in scena: macchina spesso in movimento, raccordi rapidi, ellissi che tengono il racconto in corsa. Ne nasce uno slalom tra commedia di sventura, osservazione sociale e melò familiare che, pur con qualche curva brusca, raramente perde aderenza.
La mano sinistra: stigma, gioco, gesto politico
Il titolo non è un vezzo: il nonno impone alla nipote di non usare la mano sinistra – “la mano del diavolo” – e quel rimprovero superstizioso diventa miccia narrativa e simbolica. La “mano che fa da sé” ruba cianfrusaglie, combina guai, a volte salva la situazione; soprattutto, materializza un doppio movimento: il controllo patriarcale che disciplina i corpi femminili fin dall’infanzia e, in risposta, la ribellione capricciosa ma vitalissima di chi rifiuta di farsi correggere. È un’idea semplice e potente, che Tsou declina con umorismo fisico e tenera crudeltà quotidiana, senza tesi martellanti.
Tre generazioni, tre traiettorie
La regista intreccia le linee narrative di tre figure femminile: la nonna con zone d’ombra legate all’immigrazione e ai debiti, la madre Sho-Fen schiacciata dai conti del banco al mercato, la figlia maggiore I-Ann che cerca autonomia in equilibrio precario, e la piccola I-Jing, magnete del racconto. Per 108 minuti l’idea di “romanzo familiare al presente” funziona: i segreti filtrano per indizi, il quartiere diventa rete di sostegno e di conflitto, la città è personaggio. Qualche snodo corre via in fretta, ma l’insieme resta coeso grazie a un disegno chiaro degli archi emotivi e alla costanza di tono tra leggerezza e ferita.
Vitalismo vs. scorciatoie
Quando Left-Handed Girl si affida al gesto e allo spazio – gli inseguimenti in scooter, i corridoi del mercato come labirinto, l’intimità compressa dell’appartamento – trova un respiro suo: il movimento racconta la lotta, la topografia urbana rispecchia gli ostacoli. In pochi passaggi affiora il rischio “facile”: il cute factor della bambina è spinto al massimo e certe catarsi arrivano un attimo prima di quanto sarebbe necessario per farle maturare. Sono scivolate episodiche più che un’impostazione ruffiana: si percepisce il desiderio di Tsou di tenere il pubblico vicino senza tradire i personaggi.
Interpretazioni, sguardo e consistenza visiva
Il trio femminile regge e trascina il racconto: Janel Tsai dà a Sho-Fen una concretezza stanca e combattiva; Shih-Yuan Ma costruisce un’adolescenza non apologetica; la piccola Nina Ye calamita lo sguardo ma, quando la regia le concede tempo, resta personaggio e non mascotte trascinante. Intorno, comprimari affettuosamente tratteggiati (il venditore “angelo custode”, i nonni contraddittori) rendono credibile la micro-comunità del mercato. Sul piano visivo, la fotografia abbraccia un colorismo saturo che potrebbe stancare altrove, qui coerente con l’idea di un mondo “troppo pieno” in cui farsi strada. Il soundscape – clacson, sfrigolii, chiacchiericcio – non è semplice cornice: è drammaturgia.
Il film mette a fuoco il patriarcato per accumulo di gesti: il giudizio sull’essere mancini, i debiti “ereditati”, la sessualizzazione precoce dell’adolescente, i piccoli ricatti economici e affettivi. Tsou preferisce la frizione del quotidiano alla lezione espositiva e, proprio lì, si sente la sua voce distinta dal “marchio Baker”. Quando serve, sa anche colpire con nettezza – una carezza negata, un pasto saltato, uno sguardo del nonno – senza bisogno di sottolineature.
Left-Handed Girl è un’opera prima vibrante e generosa: il vitalismo è autentico, la cornice urbana è viva, la metafora della mano sinistra è spina dorsale e bussola. L’editing a caleidoscopio e qualche scorciatoia sentimentale ogni tanto erodono profondità, ma non intaccano la sensazione di un mondo pieno, osservato con empatia e senso del dettaglio. Si esce da questa visione con immagini appiccicate addosso – mercati, scooter, piccole disobbedienze – e con la certezza che Tsou abbia già un tono (o meglio, una mano) chiaramente riconoscibile.
Left-Handed Girl
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