Ligne – La Linea Invisibile, la recensione del film di Ursula Meier

La Ligne – La Linea Invisibile recensione

La Ligne – La Linea Invisibile, in concorso al Festival di Berlino dell’anno scorso, è il nuovo film della regista svizzera Ursula Meier, che era già ben nota per Home del 2008, presentato a Cannes e che aveva ricevuto una candidatura ai César, e Sister del 2012 che, tra vari riconoscimenti, era stato selezionato per rappresentare la Svizzera agli Oscar del 2013 come Miglior film straniero.

 

In entrambe le sue precedenti pellicole, di cui ha scritto anche la sceneggiatura insieme ad Antoine Jaccoud, al centro della storia c’è una famiglia, e non fa eccezione nemmeno La Ligne – La Linea Invisibile. I temi ricorrenti di Meier sono lo strazio delle difficoltà nell’integrare i disagi interiori, relazionali e sociali, che qua esplodono sin dalla prima sequenza riprodotta in slow motion.

La Ligne – La Linea Invisibile, la trama

Margaret (Stéphanie Blanchoud) è una giovane adulta che vive insieme alla madre Christina (Valeria Bruni Tedeschi) e alla sorellina minore di dodici anni, Marion (Elli Spagnolo). La sua ira è una bomba ad orologeria ciclica che è destinata a devastare tutto e tutti quelli che incrocia. Dalle primissime inquadrature, appunto, si capisce che la linea del titolo è un’interdizione nei confronti di Margaret dall’avvicinarsi alla madre – sulla quale si è scagliata, ferendola – a una distanza inferiore a cento metri per un periodo di tre mesi.

Il linguaggio del racconto è appoggiato quasi esclusivamente sulle immagini, soprattutto nella prima parte del film, dove ci sono un condensato di primi e primissimi piani sul volto minuto e ferito di Margaret, con silenzi o brevi frasi che scambia con l’ex compagno Julian (Benjamin Biolay) a cui viene affidata per i tre mesi. E a fare da sfondo una Svizzera ghiacciata, grigia, quasi scarna, che è pienamente parte narrante del film.

Ad accompagnare i personaggi e il racconto, c’è la musica, che lega tutti e che tutti maneggiano a modo proprio. La madre Christina era stata una pianista eccellente, Margaret una cantante e chitarrista delicata e di raro talento che duettava con Julian e la piccola Marion è una corista nella parrocchia di quartiere.

È fortemente denso di significati e significanti La Ligne – La Linea Invisibile, che scaraventa in scena situazioni ai limiti dell’imbarazzo – rese  con prove attoriali decisamente degne di nota – che farebbero accapponare la pelle al migliore degli assistenti sociali, e al contempo regala attimi di finezza gelida, traboccante d’intensità, stratificando la narrazione e rendendola ricolma di angolazioni e sguardi a disposizione dello spettatore.

Per alcuni aspetti, la storia pare suddivisa in tre momenti coincidenti con le tre principali donne di cui la regista prende il punto di vista: Margaret, sua madre e la sua sorellina minore. Meier ne racconta la disperazione, il vuoto, la solitudine e lo riesce a fare posizionando la macchina all’altezza emotiva di ciascuna delle tre, come se fosse lo stesso stile musicale a loro appartenente: ne coglie le sfumature, il modo di guardare di ognuna, la loro corporeità, e le usa per spiegare le loro ragioni, nonostante restino quasi completamente inascoltate.

Il disagio familiare di cui si tratta è sostanzialmente quasi un pretesto per comporre dei ritratti incredibilmente amorevoli nei riguardi di tre donne la cui vita è praticamente alla deriva. L’incredibile capacità di Meier risulta essere, quindi, quella di sbrogliare le motivazioni dei comportamenti più indegni che una madre e una figlia potrebbero mettere in atto l’una nei confronti dell’altra, riuscendo ad illuminare lentamente il piccolo spazio esistenziale in cui tutte e tre son costrette a muoversi, donando un quadro finale dolorosissimo, ma carico di perdono.

La Ligne – La Linea Invisibile è la dolcezza dello sguardo che con la macchina da presa Ursula Meier è in grado di tirare fuori, a partire dalle devastazioni emotive più profonde e, apparentemente, irrecuperabili.

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