Cosa sarebbe successo se Gretel fosse stata figlia unica, se fosse fuggita dalla casa della strega senza ucciderla, con l’impressione che qualcosa di infausto l’avrebbe perseguitata per sempre? Non c’è da stupirsi che il film precedente di Oz Perkins si intitolassse proprio Gretel & Hansel e fosse un adattamento unico nel suo genere della favola dei fratelli Grimm. Longlegs, l’ultima fatica del cineasta – figlio di quell’Anthony Perkins che ha rivoluzionato per sempre il concetto di performance horror – attinge sia alla tradizione più sinistra dei racconti per bambini, fonte inesauribile di ispirazione per i migliori film dell’orrore, sia a quella del classico thriller psicologico, con Il silenzio degli innocenti come modello narrativo, sopra tutti. Se Longlegs non nasconde mai i suoi debiti, uno dei suoi pregi è quello di trasformarli in un teso esercizio di stile che ci parla dei terrori più atavici, quelli che covano nel seno protettivo dell’istituzione familiare.
Gretel e il diavolo
Già nel prologo di Longlegs è chiaro che qualcosa di malvagio è in agguato. Un’auto familiare parcheggia nel cortile di una casa di campagna e una ragazzina scende per scoprire chi è lo strano intruso appena arrivato. Ci viene dato solo un assaggio del suo aspetto, un’immagine quasi subliminale accompagnata da una voce impossibile, un falsetto aberrante che cerca di ispirare calma, ovviamente invano: il film è appena iniziato e ci ha già trafitto, inchiodandoci alla poltrona.
Lo sconosciuto non è altro che la minaccia del titolo, una figura enigmatica responsabile di una serie di omicidi dalla metodologia incomprensibile: in qualche modo, Longlegs (Nicolas Cage) convince i membri di svariate famiglie a uccidersi l’un l’altro, senza parlare con loro, senza toccarli o entrare nelle loro case; l’unica prova del suo intervento sono le lettere in codice, trovate su ciascuna scena del crimine, che collegano ogni indicibile atto.
A indagare sugli eventi c’è la nostra Gretel, Lee Harker (Maika Monroe), che è, esattamente come Clarice Starling, un’agente dell’FBI alle prime armi, questa volta dotata di un sesto senso soprannaturale per individuare i luoghi in cui si annida il Male. Il costante stato di apprensione psicologica in cui si trova Lee suggerisce l’imminenza di qualcosa di orribile e inarrestabile, e la complicata relazione della protagonista con la devota madre rivela presto il suo legame con un mistero dalle sfumature sataniche.
Lasciami entrare
Longlegs segna il riconoscimento definitivo per Osgood Perkins, che finora non aveva sfondato il tetto del “regista di culto”. Certo, lo era già per una buona fetta di appassionati, che ne apprezzavano il modo atipico di abbracciare i generi horror, una concezione della storia (struttura, ritmo, personaggi) molto lontana dalle convenzioni, una riflessione sfuggente ma inquietante sul male come qualcosa di astratto e incontrollabile e, soprattutto, uno spasmodico interesse per la messa in scena dell’orrore.
Perkins imposta la scena, pensa le immagini ed è tanto creativo nella concezione dell’inquadratura quanto inaspettato nel modo di scomporla; in questo senso, forse proprio la prima metà del film, questo incrocio tra thriller e horror, con tanto di reinterpretazione de Il silenzio degli innocenti, è la cosa migliore che il cineasta abbia girato, a partire da un magnifico prologo. Tutto in quella parte funziona: la rappresentazione estetizzata, allucinata e stranamente controllata delle ambientazioni della storia, la psicologia ermetica della protagonista, la presentazione misurata di Longlegs, il mostro, e lo scontro molto scomodo tra la sua natura grottesca (un superbo character design per un’interpretazione da brividi da parte di Cage) e il resto.
Ciò che è importante in Longlegs è il modo in cui la messa in scena, tenebrosamente elegante, semina inquietudine inquadratura dopo inquadratura: tutto, dagli angoli di ripresa ai tagli di montaggio, contribuisce a creare un’atmosfera malsana. Nel tracciare questa linea di trama, come dicevamo, il regista Oz Perkins maneggia senza remore riferimenti come Il silenzio degli innocenti, X-Files, Zodiac, Seven, Shining e Psycho – mescolandoli con tale maestria da comporre qualcosa di incomprensibile e sconcertante.
Un male putrido che divora ogni inquadratura
A un certo punto, Longlegs si affretta a correre ai ripari più esplicativi, nel cercare di consegnare agli spettatori una risoluzione che tenga testa a una visione particolarmente criptica. Da un punto di vista narrativo, questo significa depotenziare il suo mastodontico villain, abbandonare le idee più stimolanti (le più misteriose, le più terrificanti) per andare sul sicuro. Chiaramente, dall’altro lato, la ricerca di un compromesso tra autorialità e mainstream è assolutamente comprensibile nell’ottica di far conoscere Perkins al grande pubblico e, soprattutto, firmare una partnership con NEON, che si occuperà anche della distribuzioni dei suoi prossimi due film.
Fino a quel momento, però, Perkins dimostra un’implacabile capacità di utilizzare ogni elemento del film per inocularci il terrore e insediarlo nel nostro subconscio, attraverso scene che trasudano claustrofobia sepolcrale, sonorità fulminee che fanno sobbalzare tanto la protagonista quanto noi, cupezza nauseante e minacciosi paesaggi innevati, dialoghi che affogano in un’atmosfera opprimente e presenze talmente oscure che il nostro occhio è spinto costantemente a scrutare ogni inquadratura, per vedere davvero.
Effettivamente, l’intero snodo narrativo di Longlegs non è altro che un’originale reinterpretazione della cosiddetta violenza vicaria. Giustappunto, l’ultima fatica di Oz Perkins è uno di quei film che cresce quando viene dimenticato, che si palesa vigorosamente quando viene nascosto, che si riappropria del suo posto nella memoria quando forse non rimane altro che l’ultima smorfia esagerata del gigante Nicolas Cage.
Longlegs
Sommario
Con un’atmosfera inquietante che aleggia fin dalla prima inquadratura del film e non abbandona lo spettatore fino alla fine, Longlegs si muove più nel territorio dell’incomprensibile e dell’irrazionale che nel cosiddetto shock value. Un incredibile Nicolas Cage e una Maika Monroe sempre più regina del genere coronano questa fiaba maledetta firmata da Oz Perkins, tra i migliori horror dell’anno.