Love Life, recensione del film di Koji Fukada

Il film è presentato nella selezione ufficiale del concorso della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 79.

love life

Nonostante un titolo fuorviante, Love Life di Koji Fukada, in concorso a Venezia 79, è un racconto di dolore e di lutto, profondamente ancorato nel tessuto e nella cultura sociale giapponese, lì dove tutto, troppo spesso, deve essere detto ed espresso con uno sguardo.

 

Love Life, la trama

Taeko (Fumino Kimura) e Jiro (Kento Nagayama) sono sposati da circa un anno, si sono conosciuti diversi anni prima nell’ufficio di assistenza sociale dove ora lavorano entrambi. Taeko aveva già un figlio, Keita (Tetta Shimada), da un precedente matrimonio con un uomo che li aveva abbandonati quando il bimbo era molto piccolo, un immigrato coreano sordo che a mala pena riusciva a prendersi cura di sé. Dopo averlo cercato per anni, Taeko di rifà una vita con Jiro, cosa che però non fa piacere alla famiglia di lui. I genitori, in particolare, non sono contenti che il loro unico figlio abbia sposato una donna più grande, con un figlio che non ha il loro sangue. E, quando una tragedia improvvisa si abbatte sulla famiglia, questi legami affettivi verranno messo a dura prova e un intervento esterno continuerà a minare un equilibrio apparente molto più precario di quanto non sia sembrato a prima vista.

Fukada presenta queste vicende con un occhio fermo e glaciale, resta a distanza da emozioni forti e tragedie, quasi a emulare l’atteggiamento di apparente distacco con cui i protagonisti affrontano delle questioni anche molto dolorose che per una cultura occidentale sarebbero tutte esternate con reazioni animate e rumorose.

Forse il principale ostacolo che Love Life presenta per il pubblico è proprio questo gap culturale che non permette l’identificazione non tanto in ciò che accade agli sventurati protagonisti, quanto nelle maniera algida con cui tentano di gestire questi avvenimenti. 

Un melodramma normalizzato

Tutto quello che succede nella storia appartiene al genere del melodramma, tuttavia il film non diventa mai tale. La musica, la fotografia, la formula di messa in scena, tutto prova a indicare allo spettatore che non si sta guardando una storia drammatica. Fukada quindi opera una normalizzazione del melodramma, che se da una parte si presenta come un’operazione linguisticamente interessante, dall’altra fa crollare tutto l’impianto drammatico della storia, annullando il coinvolgimento dello spettatore. Ci si potrebbe sentire, alla fine, come se non fosse accaduto nulla di così doloroso come invece si verifica.

Love Life è un dramma familiare che ricorda il cinema muto, quasi, dove ogni piccolo gesto assume un significato profondo e altro, che dovrebbe essere decodificato da una sensibilità affine a quella dell’autore e che, in mancanza di un dialogo tra chi racconta e chi riceve il racconto, potrebbe risultare troppo ostico per essere apprezzato.

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RASSEGNA PANORAMICA
Chiara Guida
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Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.
love-life-koji-fukadaLove Life è un dramma familiare che ricorda il cinema muto, quasi, dove ogni piccolo gesto assume un significato profondo e altro, che dovrebbe essere decodificato da una sensibilità affine a quella dell’autore e che, in mancanza di un dialogo tra chi racconta e chi riceve il racconto, potrebbe risultare troppo ostico per essere apprezzato.