Enfant prodige del cinema europeo e vincitore dell’Oscar al miglior film straniero con Il figlio di Saul, László Nemes approda in concorso a Venezia 82 con Orphan, ritratto di un giovane in fiamme nella Budapest del 1957, dopo la rivolta contro il regime comunista in Ungheria. Forte di una performance magnetica da parte del giovanissimo attore protagonista Bojtorján Barábas, la nuova pellicola del regista ungherese non punta a replicare l’impatto emotivo straziante della sua opera prima, ma prosegue il desiderio di Nemes di raccontare una sofferenza circoscritta che, nella sua intimità, rispecchi il trauma più grande di un determinato periodo storico.
Lo sguardo di Andor, tra infanzia e trauma
Come di consueto in Nemes, il filtro attraverso cui leggere il suo nuovo racconto è lo sguardo del protagonista, in questo caso un ragazzino di 12 anni di nome Andor che, in un breve flashback iniziale, vediamo ricongiungersi con la madre dopo essere stato accolto da un orfanotrofio durante gli anni dell’occupazione nazista. Il piccolo, nascosto in una sorta di “tana”, è restio nel tornare a casa con la donna, che non riconosce come la propria madre essendo stato abbandonato in tenera età. Già dal posizionamento di questo punto di vista, che cerca di nascondere, rintanarsi e resistere a ciò che gli altri gli dicono, cogliamo tutti i tratti della psicologia del giovane Andor. Una volta cresciuto, continuerà a interrogarsi sull’assenza della figura paterna e a vivere delle fantasie della madre, che gli racconta di un padre idealizzato. Andor rivendica con fierezza questo cognome e ha delle conversazioni immaginarie frequenti con il padre; tuttavia, la sua vita è destinata a cambiare per sempre quando fa capolino un misterioso e inquietante uomo soprannominato “Il Macellaio”, che ha nascosto la madre durante i rastrellamenti e che sostiene di essere suo padre.
Padri, madri e ferite della Storia
Girato in pellicola come Il figlio di Saul e Sunset, Orphan contribuisce a formalizzare e solidificare il cinema di Nemes come cinema di sguardo soprattutto storico, di un passato che ha in una certa misura conosciuto – questo terzo film, in particolare, si rifà alla storia del nonno – e che, purtroppo, continua a dialogare col presente di un mondo che ancora conosce troppe sofferenze. La materia trattata non è certamente leggera, ancor più perchè filtrata dalla rabbia di uno sguardo che non si spegne, che continua a scrutrare tramite i vetri, a confidarsi nei bassifondi e a portare avanti una propria personale rivolta.
Guidato da un cast di supporto di tutto rispetto – Andrea Waskovics, Grégory Gadebois, Elíz Szabó, Sándor Soma, Marcin Czarnik – Orphan è, come dicevamo, un film profondamente personale per Nemes, ispirato all’infanzia del padre nella Budapest degli anni Cinquanta. Con la sua co-sceneggiatrice Clara Royer, il regista ha preso spunto dalla memoria familiare per costruire un racconto universale sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, sull’accettazione dell’oscurità dentro di sé e sul peso che la Storia imprime ai destini individuali. Non si tratta quindi di una semplice cronaca di un’epoca, ma di una riflessione sul trauma generazionale che si trasmette di padre in figlio, di madre in figlio, e che ancora oggi segna la società europea.
Un cinema che interroga la memoria
Orphan è anche un racconto sulla trasmissione del trauma: le ferite del Novecento, dalla guerra all’Olocausto fino alla repressione politica, si insinuano nelle generazioni successive, segnando profondamente il destino dei bambini. Come ricorda Nemes, è un film che riflette su come il passato continui a perseguitarci, e su quanto sia necessario affrontare le ombre per non riprodurre gli stessi errori.
László Nemes prosegue un percorso autoriale coerente e coraggioso: raccontare l’indicibile attraverso sguardi marginali, dare voce ai fantasmi della Storia con un rigore estetico che può apparire austero, ma che trova nella sua radicalità il segno distintivo di uno dei cineasti europei più rilevanti della sua generazione.
Orphan
Sommario
Orphan è un film personale e rigoroso, che conferma la coerenza stilistica di Nemes e la forza del suo sguardo sul trauma storico. Pur con qualche calo di tensione e un approccio a tratti troppo austero, resta un’opera intensa e significativa, capace di restituire la complessità della memoria attraverso lo sguardo di un bambino.