In apertura nella sezione Orizzonti di Venezia 76, la regista tedesca Katrin Gebbe presenta Pelikablut, la sua opera seconda, un interessante progetto che gioca con la mescolanza dei generi e si concentra su una visione estrema, esasperata, totalizzante della maternità.
Wiebke vive con la figlia adottiva di nove anni, Nicolina, in un maneggio, dove addestra cavalli per la polizia, da utilizzare durante le manifestazioni. Dopo aver atteso molto tempo, ora ha la possibilità di adottare Raya, bambina di cinque anni, traumatizzata, per dare a Nicolina una sorella. Le prime settimane trascorrono in armonia, con Nicolina che gioca alla sorella maggiore e Raja che risponde con dolcezza alle sollecitazioni della nuova sorella. Ma poco dopo, Raya diventa sempre più aggressiva, tanto che la donna ricorre subito ad uno specialista e poi, di fronte ad atteggiamenti sempre più aggressivi, si rivolge addirittura a una sciamana.
Il concept si innesta un quella tradizione cinematografica che mescola il thriller psicologico al registro drammatico, tuttavia la durata eccessiva del film ne sfilaccia l’intensità emotiva, e la trama si arricchisce di sottotesti e similitudini ingenue che invece di rafforzare l’idea di partenza la annacquano.
Pure lo stile registico, così preciso all’inizio, diventa sciatto e lascia andare la tensione attentamente costruita nella prima parte del film. Quello che però lascia davvero spiazzati è l’ingenuità con cui la regista sceglie di concludere la storia, scivolando vertiginosamente nella giustificazione della superstizione, nella risoluzione del trauma e nello scioglimento dei noti in maniera semplicistica.
Pelikablut presenta un’intuizione vincente, che potrebbe portare il film in direzioni interessanti, anche solo per la scelta di generi tanto differenti da mettere insieme nella stessa storia, ma che manca clamorosamente il centro del bersaglio.