Non è mai semplice trasporre al cinema (come con Qualcosa di buono) le sofferenze di una malattia e ben pochi sono gli autori che hanno trionfato senza sprofondare dell’insidia del patetico, senza giocare sulle facili corde delle emozioni sottovuoto. Partendo dal toccante e lucido romanzo di Michelle Wildgen e grazie all’ottima prova drammatica di Come un uragano, ecco che George C. Wolfe con questo suo secondo lungometraggio riesce a tradurre con intelligenza il dramma della vita a stretto contatto con un morbo che corrode in maniera lenta ed inesorabile quanto di più umano vi può essere.
Non nascondendo l’influsso di dinamiche già collaudate nel rapporto malato-badante già proposte in Quasi amici e volendo faticosamente emulare la profondità nella descrizione del dramma progressivo della malattia di Still Alice, il film riesce a produrre una ventata di sentimenti autentici e nel frattempo a porre l’attenzione dello spettatore su ben tre dinamiche parallele perfettamente amalgamate fra loro: la crisi matrimoniale fra Kate e il marito Evan (con in prima linea l’immancabile senso di colpa del coniuge debilitato verso il compagno); la terribile corrosione quotidiana della malattia e un bizzarro quanto eccezionale rapporto affettivo fra due donne esattamente agli antipodi.
Qualcosa di buono, il film
In Qualcosa di buono Kate è una brillante pianista che vive un’esistenza agiata affianco al marito Evan e a numerose amiche della buona società. La sua vita perfetta viene improvvisamente sconvolta quando gli viene diagnosticata la SLA, tremenda malattia neurodegenerativa che in breve tempo la lascia quasi totalmente paralizzata ed incapace di comunicare. Nel mentre che la propria vita e i rapporti affettivi iniziano a deflagrare, Kate deve trovare qualcuno che si occupi di lei, ed è così che conosce Bec, una scapestrata studentessa universitaria con mille progetti mai conclusi e una totale inesperienza con i degenti. Quello che a prima vista nasce come un rapporto improbabile ben presto si trasformerà in una fortissima amicizia pronta a combattere contro la drammaticità del destino.
Hilary Swank non avrà certo lo spessore di Julianne Moore ma si dimostra capacissima quanto la collega di descrivere passo per passo la degenerazione del corpo e dello spirito (ma non della mente!) riuscendo anche nel climax della immobilità finale a trasudare emozioni ed espressività da ogni inquadratura. La giovane Emmy Rossum si dimostra eccellente nel dare vita ad un personaggio a dir poco eclettico, una ragazza sbandata ma dalla grande umanità, una giovane donna con tutta la vita davanti e molti strade sbagliate alle spalle.
Seppur giocando con l’evocazione progettata delle emozioni, alla ricerca in più di un’occasione delle lacrime preconfezionate, Qualcosa di buono riesce a superare l’apparente didascalia e il velo di stereotipo che aleggia sui personaggi per dar vita ad un prodotto di ottimo consumo, una macchina di sentimenti mai scontati, un film intelligente e profondo fatto per essere fruito ma capace di lasciare riflessioni autentiche.