ramona recensione

Ramona e Bruno sono due anime destinate a incrociarsi nel marasma cittadino, e con le proprie parole dare inizio a una sinfonia urbana pronta a spegnersi per lasciar spazio allo scorrere dei pensieri, di riflessioni lanciati a mille tra bar e vie isolate. 

 

Filtrato dalla cinepresa di Andrea Bagney, Madrid si ammanta di un bianco e nero di altri tempi; un bicromatismo di un microuniverso non certo senza colore, ma a cui bastano due cuori che battono e si arrestano, l’uno di fronte all’altro, per plasmare un prisma cromatico di mille sfumature invisibili. È nello sguardo, nella velocità dei dialoghi, nelle labbra aperte nell’attesa di una risposta, che si celano le pennellate colorate dell’esistenza. 

Ramona si fa pertanto opera di altri tempi, una messa in sequenza di istantanee cinematografiche che elevano attimi di vita quotidiani in momenti veri, reali, ma soprattutto immortali. 

Ramona: la trama

È incostante, insicura, eppure sognatrice, la protagonista di Ramona, opera prima della regista Andrea Bagney, presentata nel corso della 17.esima edizione della Festa del cinema di Roma. Al centro della pellicola lei, quella Ramona (Lourdes Hernández) – chiamata da tutti Ona – che presta il proprio nome al titolo e che in una giornata di sole si imbatte nel curioso regista cinematografico Bruno (Bruno Lastra). Da subito innamorato di lei, luomo farà precipitare Ona in una spirale di dubbi circa la propria relazione col marito Nico (Francesco Carril) in un costante dialogo tra psicologia femminile, e arte cinematografica.

La vita che si fa evento speciale

Custode di momenti ordinari, assurti e assorti nella straordinarietà dell’evento cinematografico, Ramona è un po’ Manhattan di Woody Allen, un po’ Frances Ha di Noah Baumbach, con una spruzzatina di Richard Linklater, senza per questo perdere la propria unicità di sguardo e restituzione degli eventi. Esteticamente debitrice a un universo cinematografico segnato dalle impronte dei grandi del passato, che del recente presente, il film di Andrea Bagney si incammina lungo percorsi già battuti per ricercare la propria strada e la propria voce.

Cristalizzandosi nello spazio di inquadrature perlopiù fisse, la macchina da presa si presta a tanti sguardi che colgono di sfuggita, e senza alcun desiderio di intromissione, lo svolgersi di un’intesa che nasce, lasciandone appassire un’altra. Colti da vari punti di vista e angolature, la Bagney lascia che siano i propri personaggi a mostrarsi in maniera del tutto naturale e spontanea ai propri spettatori, attraverso la portata dei propri pensieri, l’esternazione curiosa dei propri ricordi, e la carica gestuale rivelante pregi e difetti di un carattere perfettamente restituito dalla caratura di performance coese, profonde, verosimili.

È solo nella messa in pausa di bocche che parlano, e piedi che camminano, che la macchina da presa si libera del suo stato granitico, per seguire come una calamita i propri personaggi lungo quella scia attrattiva che emanano e da cui è impossibile distaccarsi. Un’aura potentissima, la loro, in cui non vi è apparentemente nulla di speciale, quando è proprio negli inframezzi di questa anonimia dell’esistenza, che si ritrova la bellezza di Ramona. Un gioco di prestigio, una formula chimica, che fa del cinema un mago talentoso capace di rendere straordinario l’ordinario, e la vita quotidiana materiale da sogno a occhi aperti.

Happening di vita e finzione

Seduti sulla poltrona, gli spettatori vivono di illusioni; credono di essere parte integrante di quell’universo urbano che si staglia dinnanzi a loro, e testimoni privilegiati di un microcosmo interiore in fase di (de)costruzione. È un happening di taglio teatrale, quello di Ramona; una performance che vive nel momento della sua esecuzione, senza possibilità di repliche, proprio come la vita al di là dello schermo.

Un’onda continua di parole comunicate in apnea, e mani che arrancano per cercare il proprio porto sicuro; il tutto custodito tra i confini di una cornice di fattura meta-cinematografica, dove l’arte dell’essere si sostituisce e si mescola a quella del fingere. Ramona è un dialogo continuo con la modulazione di un futuro in divenire, e la costruzione di un rapporto fittizio, da modellare con la forza della macchina da presa.

Il gioco dell’attrazione tra l’attrice Ona, e il regista Bruno, si fa riflesso speculare delle pennellate che dipingono quell’universo di celluloide alla seconda inserito all’interno del racconto primario. Un passaggio di testimone che dimostra la magia del cinema di trasformare l’invenzione in realtà, lasciando credere che quello nato e ricreato dai personaggi sullo schermo sia la vera finzione. E proprio per sottolineare il materiale estraneo a quel mondo ordinario vissuto e creato al ritmo dei battiti cardiaci di Ramona, Bruno e Nico, che la regista sostituisce al bianco e nero dell’ordinarietà, i colori accesi e cangianti della sostanza meta-filmica.

I provini, le prove, e tutto il microuniverso che si svolge davanti all’obiettivo della cinepresa si veste di abiti colorati e brillanti, illuminati da una fotografia viva e splendente che ne tradisce la propria natura artefatta, irreale, immaginifica. Perché è nello spazio del bianco e nero, di due corpi e anime in antitesi che si nascondono le mille sfumature di una realtà banale, ordinaria, ma proprio per questa maledettamente vera. 

Ombre di fattura ordinaria

Tra le strade cittadine, tra le mura di un locale, o cullati nel proprio nido domestico, nessun indizio intende far capolino per tradire la natura drammatica e finzionale dell’opera di Andrea Bagney.  Lourdes Hernández e Bruno Lastra perdono la propria unicità per aderire perfettamente all’anima dei loro protagonisti. Investiti di una comicità mai forzata, ma perfettamente coerente all’umore di situazioni divergenti e mutevoli che sono chiamati ad affrontare, gli interpreti portano a compimento quel processo iniziato dalla potenza della macchina da presa, per tradurre in realtà frammenti una fantasia narrativa.

Anche la foga di una gestualità marcata, non solo si fa sintomo di una teatralità interpretativa tipicamente spagnola, ma reitera quel comportamento non verbale che accompagna tanti ignari interlocutori nei loro scambi interpersonali durante la vita di tutti i giorni. Il muro che separa la realtà diegetica, con quella spettatoriale, viene dunque abbattuto, in un girotondo di parole, sensazioni e attimi di vita vorticoso e coinvolgente. 

Non sono fantasmi di un passato riportato alla luce i personaggi di Ramona; il cinema della Bagney non è quello di Roma di Alfonso Cuaròn: non intende, cioè, farsi ponte diretto con i ricordi di ieri, richiamando frammenti dell’aldilà sul terreno dell’oggi. Le anime che vivono tra i raccordi di Ramona sono ombre di un presente che si svolge incurante degli altri; ombre scelte e insignite di valore e interesse, elevandosi a luce di proiezione, strumento straordinario di racconto di entità ordinarie. Entità che si incontrano, si parlano, si allontanano, Ramona e Bruno sono i poli opposti di una sala di aspetto fatta di celluloide, costruita e modellata nell’attesa di un abbraccio che tarda a compiersi, e con cui liberare, catarticamente, le proprie emozioni.

Specchio di mille incontri e abbandoni, di speranze e sorrisi, Ramona leviga quel vetro smerigliato che fin troppe volte impedisce la visione, e l’immedesimazione spettatoriale, per trascinare il pubblico al centro di esistenze paradossalmente così normali, da sembrare speciali. Un’equazione sottile, impercettibile, compiuta incosciamente, che eleva a straordinaria anche la realtà apparentemente banale di un pubblico così coinvolto in una storia in cui è portato a ritrovarsi, per ritrovare tra il bianco e nero di Ramona, le sfumature della propria esistenza.

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