È una bomba a orologeria il cui ticchettio si fa sempre più insistente, sempre più coinvolgente, sequenza dopo sequenza, dialogo dopo dialogo, Rapiniamo il Duce. Un ingranaggio pronto a esplodere; una detonazione improvvisa con la quale smuovere un cinema italiano fin troppo ancorato ai consueti stilemi, mescolando utopia e sogno, fantasia e una Storia (quella con la S maiuscola) adesso riscritta con il potere della macchina da presa.
Rapiniamo il duce guarda al di là dell’oceano, verso quelle spiagge caotiche che si stagliano lungo i confini di universi immaginifici come quelli di Quentin Tarantino e dei suoi Bastardi senza gloria; è uno sguardo lontano quello di Renato De Maria, lanciato non per copiare, ma per lasciarsi influenzare, nella compilazione personale di un heist-movie all’italiana, fratello e diretto discendente di classici come I soliti Ignoti, ma insignito di un gusto anarchico che lo lega per aspirazione e rivoluzione iconoclasta un altro titolo recente come Freaks Out di Gabriele Mainetti.
Proprio perché figlia di un gusto eroico, tipicamente americano, dove anche gli ultimi possono aspirare al ruolo di grandi eroi, l’opera di De Maria può rivelarsi al mondo nelle vesti di patchwork citazionistico composto da tanti, piccoli, deja-vu. Eppure, inserita nel contesto italiano, Rapiniamo il Duce vive di una sagacia innovativa e di una spinta anarcoide attraverso le quali reinventare e rinnovare il nostro cinema, anche a costo di cadere e farsi male, proprio come Isola davanti alle forze fasciste. Ma è la corsa che conta ne Il Rapiniamo il duce, non l’ascesa, o la caduta finale.
È l’evoluzione di un discorso filmico che tenta di osare, parlare linguaggi conosciuti, e allo stesso tempo nuovi per un pubblico italiano ormai assuefatto alla riproposizione diretta di mille copie di universi cinematografici sempre uguali a se stessi. Un linguaggio che canta canzoni anni Sessanta in un contesto bellico di metà anni Quaranta; un linguaggio di fotografie ombrose e colori sgargianti; un linguaggio fatto di graphic novel che prendono vita, di heist-movie dal sapore hollywoodiano inseriti tra le strade nostrane. Un linguaggio in evoluzione, vernacolare nel parlato, e aulico nella resa visiva, che vede in Rapiniamo il duce, un nuovo, ambizioso, cantore.
Rapiniamo il duce, la trama
Milano. La Seconda Guerra Mondiale è ormai agli sgoccioli. Tra le vie bue del capoluogo lombardo si aggira Isola (Pietro Castellitto), ladro spiantato e romantico, innamorato di Yvonne (Matilda De Angelis), cantante da night e a sua volta amante di un gerarca fascista (Filippo Timi), che è sposato con Nora (Isabella Ferrari), attrice del muto che non ama più. Per puro caso Isola e la sua banda di anti-eroi improvvisati (Tommaso Ragno e Luigi Fedele) scopre che Mussolini e i suoi gerarchi fascisti stanno organizzando una via di fuga, così da mettere in salvo anche il proprio tesoro, fatto di gioielli e pezzi d’oro sottratti al popolo italiano. Co-adiuvato dalla propria banda – a cui si aggiungono anche Molotov e il pilota automobilistico Denis Fabbri (Maccio Captonda) Isola organizza un proprio contro-piano d’attacco per rapinare il Duce e impadronirsi dell’oro.
In questo mondo di ladri
È un Robin Hood che ruba ai ricchi gerarchi per donare ai sopravvissuti dell’incubo fascista, Isola. Capobanda di un gruppo musicale che agli strumenti preferisce le bombe e l’artiglieria pesante, il personaggio di Castellitto si fa guida privilegiata di una Milano abbagliata dalla luce dei raid aerei, ricercando nella sottrazione dell’oro ai generali fascisti, un senso di rivalsa sociale da parte di una nazione in ginocchio. Memore della lezione impartita da Monicelli, e riscritta in termini anglosassoni da registi come Tarantino e non ultimo Edgar Wright (Baby Driver), Renato De Maria costruisce il proprio heist-movie tra azione e storicità, prendendo il testimone da un progetto altrettanto simile, e altrettanto ambizioso, come Freaks Out di Gabriele Mainetti.
In questo mondo di ladri improvvisati, dove ogni personaggio entra in campo con un ruolo prestabilito, nulla è paradossalmente lasciato al caso. Isola, Molotov, Amedeo, Yvonne, Denis e Marcello, si fanno portavoce di vizi e virtù (im)perfettamente umani, restituiscono in termini caratteriali quell’immagine che il loro nome di battaglia accende nella mente dello spettatore. Componenti di un meccanismo a orologeria, ogni personaggio viene tracciato in maniera individuale e distintivo, insignito di una singolarità che i propri interpreti non hanno paura di cogliere e tradurre in performance coinvolgenti e introspettivi.
Se è L’isola di Pietro Castellitto ad assumere il ruolo di leader, nonostante il suo fare di casinista buono, ma impacciato, la realizzazione totale della sua opera non avrebbe assunto la stessa carica impattante se a sostenerlo non ci fosse una galleria umana perfettamente incarnata da attori in piena parte. L’introspezione di Matilda De Angelis si fa fascino tangibile nel corpo e nello sguardo della femme fatale Yvonne; l’espressione luciferina, accompagnata da un tono di voce rauco, irresistibile – e per questo ancor più funesto – di Filippo Time è il corrispettivo perfetto per la realizzazione del generale Borsalino, mentre l’innocenza di Luigi Fedele si fa tessera imprescindibile di un puzzle di fattura antropologica composita, che va a riflettere i diversi aspetti di una società italiana pronta a ribellarsi.
In questo vortice umano dai caratteri eterogenei, chi riesce a strapparsi un ruolo di prim’ordine tra eroi per caso, e cattivi sublimemente attraenti, è però un Maccio Capatonda dalla presenza irresistibile e tempi comici invidiabili; un ruolo, il suo, non cucitogli addosso, ma creato direttamente sulla forza del genio del comico abruzzese. Gemello omozigote di dieci e più personaggi generati dal grembo comico di Maccio ed entrati di diritto nell’immaginario collettivo, il pilota Denis Fabbri riesce nell’impresa di spingere una sceneggiatura alquanto fiacca, e dalla comicità forzata, là dove molti non riescono. Recidendo le fila che tengono i suoi colleghi legati alla forza dell’inchiostro delle pagine di sceneggiatura, Maccio si fa co-autore di un personaggio a se stante, che vive nel gruppo ma si anima con un’energia indipendente, alimentata dal fuoco della propria ironia e del proprio genio.
Predomini visivi
Soffocata da una potenza visiva preponderante, la sceneggiatura a cura di Renato De Maria, Federico Gnesini e Valentina Strada, non riesce a trovare un varco abbastanza ampio per evolversi, e raggiungere lo stesso livello della sua controparte registica. Semplice e prevedibile, la sua forza risiede nella caratterizzazione dei personaggi, e nell’aver stilato una base di partenza abbastanza solida per costruirvi un impianto visivo ad alto tasso adrenalinico. Con Rapiniamo il Duce sono pertanto gli occhi a rivestirsi di bellezza e pura azione, mentre la mente giace in pausa tra i meandri di un limbo narrativo che non le richiede particolari sforzi di interpretazioni o elucubrazioni.
Uno scarto netto, figlio degli insegnamenti di un gusto classico hollywoodiano dal sapore antico, dove a predominare è un mondo che deve far sognare, prendere lo spettatore e portarlo altrove, al di là della propria quotidianità, al di là di una storia ora ribaltata, modificata, rubata e insignita di nuovi eventi e di nuovi eroi.
Non è il film che sconvolgerà i cardini del cinema italiano, Rapiniamo il Duce, eppure, tra gli inframezzi di un montaggio dinamico e serratissimo, si intravede una voglia irrefrenabile di rivoluzionare un processo stantio di fare cinema, rapinando al di là dell’oceano per donare a nuovi sguardi ammaliati, sorpresi – proprio come quelli di Isola che guarda in camera – il piacere di sognare e vivere altre vite, sospesi tra le vie di una nuova avventura, mentre fuori brucia la città.