Ritorno a Seoul: recensione del film di Davy Chou

Ritorno a Seoul recensione film

Ritorno a Seoul è diretto da Davy Chou, regista quarantenne franco-cambogiano che ha iniziato la sua carriera prima con i cortometraggi e poi, nel 2012, con un documentario sugli anni d’oro del cinema cambogiano degli anni ’60 e ’70 intitolato Le Sommeil d’or. Nel 2016 gira il suo primo lungometraggio di finzione, Diamond Island, presentato alla Settimana della Critica durante il Festival di Cannes di quello stesso anno. Proprio come Ritorno a Seoul, selezionato sempre per Cannes l’anno scorso nella sezione Un Certain Regard. Diversi sono i riconoscimenti che Davy Chou consegue nel corso degli anni, anche e soprattutto grazie al suo fine sguardo registico sulla realtà del suo Paese e non solo. Tanto che questa sua ultima pellicola è stata scelta come rappresentante della Cambogia per la candidatura a Miglior film internazionale agli Oscar 2023.

 

Ritorno a Seoul, dalla Francia

Ritorno a Seoul, in sala dall’11 maggio, è infatti la storia di Frédérique Benoît (Park Ji-Min), una 25enne coreana che vive in Francia e che viene adottata quando è ancora molto piccola da una coppia francese, appunto. Mossa da un’iniziativa presa più o meno d’impulso, decide di partire alla volta della capitale della sua patria d’origine alla ricerca dei suoi genitori biologici, senza però condividerlo con quelli adottivi.

L’idea di questa specifica storia al regista è venuta a partire dalla vita personale di una sua cara amica e di un particolare episodio accaduto nel 2011 nel quale è stato direttamente coinvolto. Laure Badufle – questo il nome della vera protagonista dei fatti – aveva chiesto a Davy Chou di accompagnarla in Corea a conoscere i suoi genitori naturali che tanti anni prima l’avevano affidata ad un orfanotrofio dal quale poi sarebbe partita con i suoi nuovi mamma e papà per crescere in Francia. Assistere a un tale sconvolgimento esistenziale ha così toccato Chou che ha deciso di farne un film.

Ritorno a Seoul film recensioneOgni dettaglio dipinto nel film è dunque un condensato dell’esperienza diretta dei suoi veri interpreti principali: iniziando dalle emozioni che contrastano tra i passionali toni europei e quelli asiatici accennati, a volte carichi di slanci sacrificali, fino alle descrizioni degli spazi, i luoghi e i colori.

Ritorno a Seoul, il cui titolo inizialmente avrebbe dovuto essere All the people I’ll never be, racconta quindi con grazia e un’ottima consapevolezza dell’uso della macchina da presa e del flusso narrativo, il tentativo disperato di una ragazza di cercare le proprie radici e un’identità.

Davy Chou descrive otto anni a partire dall’arrivo di Frédérique per la prima volta a Seoul, scorrendo lungo una serie di momenti che scandiranno i disorientati percorsi che lei proverà a intraprendere nella speranza di arrivare finalmente a conoscere chi è e da dove viene. E la descrizione, Chou, la fa con grandi stacchi temporali, a volte anche rispetto alla trama, dettando una corrispondenza nel ritmo sincopato con gli stati d’animo sempre borderline che lei prova, accompagnato dalle grandi differenze tra i posti e le esperienze che Frédérique vive.

Un film profondamente delicato

L’attrice Park Ji-Min è poi incredibilmente brava a rendere la glaciale disperazione della sua Frédérique, che non conosce mezze misure, vaga senza meta per poi trovarsi spesso a sbattere a ripetizione come una mosca contro un vetro. E curiosamente coincide anche con la sua di storia personale: Park Ji-Min è davvero una coreana cresciuta in Francia, anche se con suoi genitori biologici, quindi non adottata, ma ben consapevole di quello smarrimento congenito di chi non sente salde le proprie radici.

Davy Chou è dunque estremamente abile nell’uso delle luci e dei suoni, che conducono sempre la protagonista e le sue emozioni, e se ne lascia condurre a sua volta, seguendola nelle sue pungenti ostinazioni. Il taglio che il regista riesce a dare ad ogni sequenza è profondamente delicato, calibrato e molto chiaro nel racconto della storia: differenziando sempre il ritmo e usando la pazienza e l’attenzione necessarie a lasciar trapelare dolore, disagio e la necessità di sapere che chi ti ha messo al mondo l’ha fatto desiderandoti sul serio.

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