Saw X: recensione del film di Kevin Greutert

Al cinema dal 26 ottobre un nuovo tassello del puzzle horror divenuto cult

Prodotto da Lionsgate Productions e Twisted Pictures, arriva al cinema Saw X, il nuovo capitolo della celebre saga horror con Tobin Bell, diretto dall’affezionato Kevin Greutert (Saw VI, Saw 3D). Il film, immerso nel traffico narrativo del suo stesso franchise, viene chiamato a tentare nuove strade; con la speranza che sovrascrivere nuovi codici possa bastare a rilanciare uno sguardo annebbiato.

Saw X: la trama

Al termine degli eventi del primo film John Kramer rimane, com’è noto, un malato terminale disperato, in attesa della morte. E le sue giornate trascorrono logoranti, tra terapie inefficaci e fredde luci al neon. Così, quando un ex compagno del gruppo di supporto gli parla di una procedura medica sperimentale che potrebbe aiutarlo a sconfiggere il cancro, John si reca in Messico per sottoporsi alla cura. Salvo poi scoprire che l’operazione non è che una frode molto ben organizzata, volta a colpire impietosa le persone più vulnerabili. Ferito e infuriato, John decide dunque di vendicarsi dei suoi truffatori, mettendo a punto una serie di famigerate trappole mortali con cui sfidare i nuovi “giocatori”.

Riavvolgere il nastro

Potrebbe risultare affascinante ragionare di John Kramer nei termini di effettiva manifestazione “in pellicola” del regista James Wan – e insieme delle sue perverse e diaboliche macchinazioni. Quel che è certo però è che, all’interno della ormai più che longeva saga di Saw – l’Enigmista, il concetto di eredità ha sempre rivestito un ruolo centrale, necessario al prolungato perpetuarsi del gioco (meta)cinematografico.

Generato quasi vent’anni or sono dalla mente di uno dei cineasti di genere più influenti del nuovo millennio – nonché dalla penna del fedele e fidato Leigh Whannell – il franchise ha dato il via ad un vero e proprio fenomeno di culto, inizialmente confluito in una trilogia e poi allargatosi a macchia d’olio. E così come al “Messia” John Kramer sono via via andatisi sostituendosi i discepoli Amanda, Mark e Logan, allo stesso modo anche la coppia Wan-Whannell ha ben presto abbandonato la direzione della saga, occupandosi in un primo momento della stesura dei soggetti (Saw II e Saw III) e infine auto-relegandosi al ruolo di produttori esecutivi.

Privata della componente autoriale che ne aveva decretato il successo, l’epopea horror di Jigsaw è tuttavia andata sfilacciandosi; e, nel corso degli anni, i meccanismi che l’avevano resa celebre l’hanno invece trasformata in una sequela di ripetitivi giochi al massacro, atti solo ad alzare l’asticella del raccapriccio o seminare indizi nell’ottica di un puzzle più complesso, di una lore/software in costante aggiornamento. Un decadimento lento e inesorabile che ha coinvolto mediocri sceneggiature e discreti mestieranti, e che – dopo il disastroso Saw Legacy e il tentativo di spin-off Spiral – ha di fatto persuaso la produzione della necessità di un efficace restyling.

Restyling

Non a caso utilizziamo questo termine: restyling. Perché Saw X, collocato temporalmente tra il primo e il secondo capitolo della saga, è un convinto – e convincente –  tentativo di riprogettazione strutturale del franchise; una boccata d’aria fresca essenziale a invertire il demoralizzante trend da “copia e incolla” sviluppatosi negli ultimi sedici anni.

John Kramer, promosso a protagonista dell’opera dopo due decenni di aleatoria voce fuoricampo, è allora una delle principali chiavi di volta del processo di “inversione” proposto. Espressione più che adeguata, e ultra-simbolo, di un corpo/cinema malato, richiedente sperimentazione medica. Al suo fianco, necessaria al conferimento di una maggiore tridimensionalità psicologica e alla velleità di umanizzazione della violenza perpetrata, vi è un’evidente dilatazione del ritmo narrativo; in coraggiosa risposta a una frenesia divenuta dictat e a un dilagante sentimento di preconfezionata pigrizia creativa.

Accantonato il poliziesco e, almeno in parte, l’iconico montaggio sincopato, Saw X prende dunque tempo, lo sfrutta per arricchire –  e non appesantire – la già stracolma mitologia del brand; e, senza cadere in facili nostalgie, elabora un intelligente fan service al “servizio” della narrazione. L’opera che ne consegue, incastonata nel bel mezzo di una forzata serialità, trova finalmente adeguate risposte a quesiti finora mai posti e, seppur chiamata a “tornare sui binari” della tortura artigianale (dell’escape room), mette in gioco intriganti stratagemmi di ribaltamento che, una volta tanto, tornano quantomeno a interrogare l’orizzonte d’attesa dello spettatore.