The Kitchen: recensione del debutto alla regia di Daniel Kaluuya

Il debutto alla regia di Daniel Kaluuya co-diretto con Kibwe Taveres non sviluppa le premesse che lo annunciavano come uno dei progetti più promettenti di questa stagione

The Kitchen recensione film neflix
Credit © Netflix

Non sono bastate le tecniche di sceneggiatura applicata del Sundance’s Screenwriting and Directing Lab a consentire agli autori di The Kitchen di trovare una voce personale e distintiva per il loro progetto. L’idea di forte critica sociale alla base del soggetto selezionato nel 2016 per il workshop promosso dal Sundance Institute è rimasta sullo sfondo di un film le cui premesse, pur importanti sulla carta, sono rimaste tali.

 

Dopo aver chiuso la 67esima edizione del BFI London Film Festival, il debutto alla regia di Daniel Kaluuya, attore premio Oscar per Judas and the Black Messiah, co-diretto con Kibwe Tavares, è approdato il 19 gennaio su Netflix, promosso come un thriller sci-fi ambientato in una Londra futuribile e distopica. Etichette che sembrano più una copertura di marketing che il contrassegno effettivo di un film che si ferma sulla soglia, senza cucinare, pardon, approfondire un tema sugli altri per assegnare una spinta decisiva alla trama.

Nessun ‘thrilling‘ per lo spettatore di The Kitchen

Nessun ‘thrilling‘ corre lungo la schiena dello spettatore e il contesto tecnologico che dovrebbe caratterizzare la dimensione science-fiction rimane ben inferiore alla media dell’interazione con i vari device che la maggior parte di noi esperisce quotidianamente. Lo spettatore viene invitato ad immergersi in una metropoli del futuro che, tuttavia, rimane sempre dietro le quinte.

The Kitchen film
Credit © Netflix

Ad essere mostrato è invece il residuo di un mondo troppo poco lontano dalla realtà di oggi per essere definito distopico, basti pensare che parte del film è ambientata nelle realissime banlieu parigine, con gli esterni prestati dall’architettura dell’edificio Damiers de Dauphiné. The Kitchen è il nome del quartiere che riunisce un’umanità povera e sovraffollata di una città che non vediamo mai e di cui si può solo immaginare un’asettica organizzazione basata sul denaro al di fuori del recinto abitato da miseria e vitale disordine del quartiere stesso.

Gli abitanti dei palazzi fatiscenti che più che dalla Londra del futuro sono localizzabili nelle periferie del nostro presente senza ritocchi VFX resistono agli sgomberi effettuati con crescente violenza da parte della polizia, rimanendo tuttavia relegati a una dimensione scenografica rispetto alla vicenda intimistica del protagonista, Izi, interpretato dal rapper di origine giamaicana Kano, ovvero Kane Brett Robinson, qui al suo primo ruolo da protagonista assoluto. La trama rallenta quando nella vita di Izi, occupante tutt’altro che entusiasta di The Kitchen e poco incline alla solidarietà che gli altri abitanti cercano invece di portare avanti, arriva un adolescente orfano, Benji, interpretato dal convincente Jedaiah Bannerman, attore esordiente scoperto attraverso le piattaforme social.

È a questo punto che il film quasi si arresta completamente. Il giovane Benji è l’emblema di questa sospensione, incapace di trovare un filo conduttore che possa diventare per lui destino e posto nel mondo, diviso tra il desiderio di stabilire una relazione padre-figlio e il richiamo della banda di giovani di cui non condivide le modalità di rivolta sociale ma che pure gli offrono un senso di appartenenza meno esile del suo presunto padre.

The Kitchen Izi Benji
Foto di Chris Harris
– Cr. Courtesy of Netflix © 2023

Eppure il film ha avuto una gestazione lunga otto anni: a raccontarlo è lo stesso Daniel Kaluuya, autore del soggetto e co-autore della sceneggiatura originale assieme a Joe Murtagh, che ha dichiarato di aver maturato l’idea nella storica bottega del suo barbiere di fiducia, portato anche sullo schermo nel ruolo di se stesso.

Ma che cos’è davvero The Kitchen?

La scintilla nasce da una conversazione su un gruppo di ragazzini che dopo aver rubato gioielli per milioni di sterline si trovano a rivenderli per poche centinaia di pounds. La visione dei poveri che restano poveri e la perdita definitiva della capacità di assegnare e assegnarsi un valore sono i temi che danno l’avvio al film per poi perdersi in una dimensione privata che diluisce la stessa potenzialità emozionale della storia: dimenticate il cappottino rosso di Schlinder’s List, se volete visitare ‘The Kitchen‘ dovrete farlo da soli.

Ma che cos’è davvero The Kitchen? Un laboratorio sociale dove si sceglie di salvarsi insieme perché diventare l’uno destinazione dell’altro è l’unica possibilità di sopravvivenza o l’ultimo rifugio di persone disperate che come Izi attendono solo l’occasione giusta per migrare verso una ‘Buena Vida’, come si chiamano i patinati appartamenti messi a disposizione dal sistema per chi ne ha facoltà economica?

Le vicende generali degli occupanti del quartiere e quelle particolari dei protagonisti si alternano in un costante gioco sfondo-figura che non arriva mai a compenetrarle davvero l’una all’interno dell’altra se non per isolati touch points che non bastano a segnare l’evoluzione narrativa dei personaggi.

- Pubblicità -