L’esordio del venezuelano Lorenzo Vigas Leone d’Oro a Venezia 72, basato su un racconto scritto con Guillermo Arriaga, è incentrato sull’incontro di due solitudini nella Caracas di oggi.
Armando (Alfredo Castro) è un uomo freddo e metodico. Non sa entrare in contatto col mondo intorno a lui, ne resta distaccato, così come si mantiene a distanza dalle persone. Il suo motto è: guardare, ma non toccare, né farsi toccare dagli altri. Vale anche per i suoi fugaci incontri con ragazzi di strada, dai quali compra l’illusione del sesso e di relazioni che non sa instaurare. È così che conosce Elder (Luis Silva), giovane vitale, pieno d’energia, che passa le giornate tra furti e amici. In lui c’è qualcosa di diverso. I due prima si scontrano, poi si riconoscono: un trauma comune, un padre problematico, assente, il bisogno e l’incapacità di colmare quel vuoto affettivo ed emotivo. Il rapporto padre-figlio che provano a costruire è anche un ambiguo impastato di attrazione, gratitudine, egoismo.
Il film è il secondo di una
trilogia sulla genitorialità iniziata con il corto Los
elefantes nunca olvidan. Ha conquistato la giuria di
Venezia 72, presieduta da Alfonso Cuarón, col suo
realismo minimalista, con la recitazione complementare dei
protagonisti: il naturalismo pasoliniano dell’esordiente Silva e
l’abile lavoro di sottrazione di Castro (lanciato a livello
internazionale dai film di Pablo Larraín e visto
negli italiani È stato il figlio e
Il mondo fino in fondo). L’esplorazione
della sfera emotiva e sentimentale dei due uomini, che
continuamente si mescola con altre spinte e bisogni – dal sesso al
denaro, dalla vendetta alla gratitudine, alla necessità di trovare
un proprio posto nel mondo, di essere accettati – è indubbiamente
interessante. I protagonisti si muovono in un territorio a loro
sconosciuto, in cui non sanno come comportarsi, commettono errori,
scambiano qualcosa per ciò che non è, senza rendersene conto.
Dal punto di vista formale, si distinguono alcune scelte efficaci, come il lavoro sui silenzi, l’attenzione delle inquadrature verso elementi significativi e simbolici, la fotografia che rende bene l’isolamento di Armando dall’ambiente circostante.
Ti guardo (Desde Allá), però, non sviluppa a pieno tutti i temi presenti: la condizione dei ragazzi di strada, l’omofobia, il materialismo della società. Ciò è in parte giustificato dal taglio psicologico del lavoro, ma la narrazione non approfondisce neppure il vissuto dei protagonisti, che appare invece centrale, i legami familiari passati e presenti. È la relazione stessa tra Armando e Elder a chiamarli in causa e li si vede in brevi sequenze difficili da decifrare. Nello spettatore sorgono domande e dubbi che non vengono sciolti. Un’indeterminatezza che rende il quadro complessivo frammentario.
Resta dunque soprattutto il qui ed ora: due interpretazioni d’impatto per un regista di talento.