Franco Maresco torna a Venezia con un’opera che è, insieme, film e contro-film. Un film fatto per Bene prende le mosse da un progetto ambizioso: un lungometraggio dedicato a Carmelo Bene. Le riprese, però, naufragano tra incidenti, ciak infiniti e ritardi insostenibili. Andrea Occhipinti, produttore esasperato, decide di tirare il freno a mano e interrompere tutto. Maresco reagisce con un’accusa di “filmicidio” e sparisce dalla circolazione. A raccogliere i cocci ci prova Umberto Cantone, amico e complice di sempre, che si mette sulle tracce del regista, interrogando colleghi, tecnici e testimoni di un’impresa tanto folle quanto impossibile.
Il fantasma di Maresco
La ricerca di Cantone si trasforma presto in un viaggio dentro il mito maresciano: l’autore che da decenni alterna comicità corrosiva e disperata riflessione sull’Italia. Ma se in superficie seguiamo le testimonianze sul naufragio del film, in profondità si intravede un altro percorso: quello di un artista che si sottrae al presente, quasi un eremita che continua a filmare lontano da tutto e da tutti, con un solo scopo dichiarato — dare forma alla rabbia e all’orrore per un mondo “di merda”. In questa prospettiva, l’opera diventa un autoritratto involontario, una confessione che oscilla tra ironia e abisso.
Satira
irriducibile
Come spesso accade nel cinema di Maresco, lo spettatore è spiazzato da una satira che non concede sconti. Tra immagini disturbanti, apparizioni grottesche e improvvisi lampi comici, il film mette alla berlina non solo il sistema produttivo italiano, ma anche l’idea stessa di cinema come forma salvifica. Se negli anni Novanta le provocazioni con Ciprì scuotevano censure e critici per blasfemia e oscenità, oggi Maresco sembra concentrarsi su un bersaglio più intimo: se stesso. Il risultato è un gioco di specchi in cui la realtà e la finzione si inseguono, senza mai incontrarsi davvero.
Tra disperazione e lucidità
Un film fatto per
Bene non è un’opera facile né conciliante. È lenta, a tratti
esasperante, eppure impossibile da liquidare. Dentro la sua
struttura caotica pulsa la voce di un autore che, pur dichiarando
di non credere più alla capacità del cinema di cambiare il mondo,
continua a usarlo come campo di battaglia personale. La frase che
chiude idealmente il film — “Da giovane sapevo che la bellezza non
avrebbe salvato il mondo, ma credevo che il cinema avesse ancora un
senso” — suona come un testamento. Amaro, autoironico, disperato.
In altre parole: perfettamente maresciano.
Un film fatto per Bene
Sommario
Dentro la sua struttura caotica pulsa la voce di un autore che, pur dichiarando di non credere più alla capacità del cinema di cambiare il mondo, continua a usarlo come campo di battaglia personale.