Una bugia per due: recensione della commedia francese

Il francese Rudy Milstein esordisce alla regia con una commedia degli equivoci, affidata alla coppia Dedienne-Nakache.

Una bugia per due recensione

Per gli amanti del cinema francese e della commedia degli equivoci con lezione finale, da giovedì 1° febbraio Officine UBU distribuisce in sala Una bugia per due, esordio nel lungometraggio del giovane Rudy Milstein (dopo alcuni corti, tra cui il Mon combat del 2019). Una storia sull’apparenza e l’opportunità, il bisogno di accettazione e il valore che diamo ai principi che diciamo orientino le nostre scelte, a tratti naive e un po’ ingenua, ma che può contare sulla presenza – e sulla tensione che tra loro si crea – di due volti noti come quelli di Vincent Dedienne e Géraldine Nakache. Con loro, oltre allo stesso regista in un piccolo ruolo (non banale), anche Clémence Poésy, Rudy Milstein, Isabelle Nanty, Sam Karmann e Rabah Nait Oufella.

Una bugia per due, la trama

Louis è gentile. il classico bravo ragazzo. È così gentile che passa spesso inosservato. I colleghi e i genitori non ne hanno una grande considerazione, e non può nemmeno contare sull’appoggio degli amici… che non ha. Il giorno in cui scopre di avere una grave malattia, quelli intorno a lui sembrano notare la sua esistenza per la prima volta, e per Louis le opportunità personali e professionali improvvisamente abbondano. Difficile però rivelare la verità, quando scopre di essere in realtà sano, dopo che lo studio legale presso cui lavora gli chiede di difendere una multinazionale dall’accusa che i propri prodotti provochino il cancro, l’occasione per farsi finalmente notare. Tutto ha un prezzo, come si sa, e l’imbarazzato e impacciato Louis sarà costretto dalle circostanze a interpretare il ruolo di bugiardo e a ricorrere a una bugia ‘a fin di bene’ per ritagliarsi un posto agli occhi degli altri.

Una bugia per dueMalato tra le donne

Al centro di tutto Vincent Dedienne, volto perfetto per esprimere lo spaesamento del protagonista, meno forse per lasciarne intuire gli angoli più oscuri o tormentati. Una potenziale debolezza cui il regista supplisce grazie a un tris di attrici chiamate a portare avanti l’intreccio intorno a lui, con la spigolosa e caparbia Hélène di Géraldine Nakache (non a caso eletta miglior attrice non protagonista dal pubblico del Festival Jean-Carmet nel 2023, sorella del regista Olivier Nakache e regista ella stessa, anche se sembra essersi fermata agli apprezzati Tout ce qui brille e Nous York) su tutte, seguita da ‘mamma’ Isabelle Nanty (Il favoloso mondo di Amélie) e la cinica Elsa di Clémence Poésy (In Bruges).

I riferimenti sono quelli delle commedie di Judd Apatow, del cinema di Agnès Jaoui, di Julie Delpy, di Michel Leclerc e del Tutti gli uomini di Victoria di Justine Triet, almeno stando a quanto dichiarato – a proprio rischio e pericolo – da Milstein, fan dello humor inglese di Quattro matrimoni e un funerale o di Mike Newell e di quello scorretto delle prime stagioni de I Simpson. Un gotha personale che rischia di aver confuso il regista, che qui sembra soffrire proprio della difficoltà a tenere in equilibrio tanti temi e spunti.

Una bugia per due Una commedia leggera con troppe pretese

Troppi, verrebbe da dire, visto che in un contesto alla Erin Brockovich si intrecciano una ‘velata’ critica delle politiche bancarie e della dilagante tendenza a giudicare, come anche dell’ipocrisia sociale nei confronti del diverso o del senso di colpa messo in scena più a beneficio di chi ci osserva che del malato o bisognoso di turno. Tutto legittimo, tutto raccontato con leggerezza e non senza siparietti divertenti o macchiette ben riuscite (senza considerare tale la suddetta Hélène, il migliore resta l’inespressivo Bruno interpretato da Milstein stesso), eppure tutto piuttosto confuso.

Tra scontri legali inverosimili, donne in carriera mosse più dalla gelosia personale che dal senso di giustizia e genitori anaffettivi, a regalare una parvenza di sincerità è il solo Rabah Nait Oufella, nei panni del giovane Julien. Un ‘primato’ che la dice lunga sulla poca efficacia dei personaggi costruiti sul resto del cast e di una scrittura che a fatica riesce a dare coerenza a questa satira sulle apparenze, che comunque riesce a procedere senza troppi scossoni e con qualche forzatura. Una favola morale più che una commedia dell’assurdo, come reso evidente dalla rassicurante e conciliatoria conclusione, e dall’invito a non cercare l’accettazione altrui a tutti i costi e a trovare il coraggio di non aspettare ad affrontare le cose che da sole non cambieranno mai.

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