Una notte di 12 anni, recensione del film di Álvaro Brechner

la notte dei 12 anni

Una notte di 12 anni, terzo lungometraggio dell’uruguayano Álvaro Brechner (Bad day to go fishing, Mr. Kaplan), affronta un tema ancora scottante nella memoria storica del suo paese, poiché appartiene al recente passato: la dittatura che ha tenuto sotto scacco l’Uruguay dal 1973 al 1985, interrompendo una pur radicata tradizione democratica.

 

Il film, presentato allo scorso Festival di Venezia nella sezione Orizzonti e poi uscito in Uruguay, Argentina, Brasile e Messico, non vuole però, nelle intenzioni del regista, essere una denuncia della dittatura, ma indagare come possano uomini – se ne prendono in considerazione tre, ma in totale furono nove – privati non solo della libertà, ma della possibilità di usare la parola e gran parte dei propri sensi, isolati, sopravvivere per più di un decennio senza perdere sé stessi.

Nell’Uruguay della dittatura militare, nel 1973, tre guerriglieri Tupamaros vengono arrestati e portati in carcere, dove, con spostamenti continui da una caserma all’altra, resteranno in isolamento per dodici anni, ostaggi del regime, che si riserva di ucciderli in caso di nuovi attacchi da parte di guerriglieri ancora attivi nel paese. Senza poter parlare, spesso incappucciati, ammanettati, nutriti a malapena e privati di tutto, saranno portati ai limiti della resistenza umana e psicologica e solo aggrappandosi ai pochi brandelli di vita con cui verranno in contatto o al potere dell’immaginazione potranno evitare l’annientamento.

Una notte di 12 anni, i protagonisti

I tre prigionieri sono José “Pepe” Mujica (Antonio De La Torre), Eleuterio Fernández Huidobro (Alfonso Tort) e Mauricio Rosencof (Chino Darín). Il film si basa sulle testimonianze della loro reale esperienza. Oggi, sono considerati figure di spicco della vita democratica del paese post dittatura: Mujica è stato Presidente dell’Uruguay, Huidobro Ministro della difesa, mentre Rosencof è scrittore e poeta.

Di fatto, la denuncia non può che emergere dal film con estrema forza, proprio perché scaturisce direttamente dai fatti e non è ostentata. Il regista non punta sull’elemento cruento, ma piuttosto sulla privazione sensoriale, da rendere ad esempio assumendo il punto di vista del prigioniero incappucciato, sulla fame, sull’assenza di igiene, sul vuoto delle celle in cui nulla si può fare, perché nulla c’è. Non mostra quasi mai le torture vere e proprie subite dai tre, ma manette strette ai polsi, insulti, umiliazioni. Non vi sono neanche discorsi di denuncia da parte dei protagonisti.

Mostrare gli effetti della deprivazione totale è però di per sé un atto d’accusa contro chi ha pensato, orchestrato e reso possibile quel sistema. Brechner riesce ad essere coinvolgente e mai retorico, scegliendo tre attori che per immedesimarsi nei rispettivi ruoli si sono sottoposti a una prova di resistenza fisica e mentale notevole, a un forte dimagrimento.

Hanno provato anche loro, in parte, “nella propria carne” –  la citazione de La colonia penale di Kafka apre il film – cosa significhi quella condizione, dando tutti un’egregia prova attoriale. Non solo Antonio De La Torre, forse il più noto dei tre (Volver, Gli amanti passeggeri), più volte candidato ai premi Goya, che dà vita ai deliri di Mujica, ma anche Alfonso Tort, già scelto da Brechner per Bad day to go fishing e Chino Darín (Il Clan).

Il regista fa anche un buon lavoro di sceneggiatura per far appassionare lo spettatore alle vicende di tre detenuti che, in isolamento per anni, non fanno altro che essere spostati di caserma in caserma. Ricrea l’alienazione di questi luoghi, la ripetitività e l’ossessività dei movimenti al loro interno, un tempo circolare dove difficilmente si distingue il giorno dalla notte, ma spezza abilmente la monotonia con incursioni frequenti nelle menti dei tre, nel loro ondeggiare tra follia e lucidità, nel lavorio incessante per creare spazi astratti di evasione con fantasie su persone care, o ricordi riproposti in chiave onirica, con giochi immaginari, o inventando nuovi codici di comunicazione in assenza di linguaggio.

In più, una vena umoristica attraversa questo universo cupo e disperante ed è forse l’aspetto che più stupisce. Il film è punteggiato di situazioni paradossali, grottesche, quasi da teatro dell’assurdo, ma basate su episodi realmente accaduti, che offrono un quadro insolito della situazione carceraria. Non trova posto invece il pietismo, anche quando si dà spazio ai momenti di solidarietà umana che pure vi sono stati, ai brevi e sporadici incontri con i familiari che hanno reso, almeno per poco, sopportabile la prigionia.

Nella colonna sonora spicca una versione di The sound of silence di Simon & Garfunkel, reinterpretata in modo originale da Silvia Pérez Cruz – anche attrice nei panni della moglie di Huidobro – a sottolineare  l’importanza del silenzio per arrivare a conoscere davvero sé stessi, delineando col suo stesso andamento l’evoluzione dei protagonisti dalla completa disperazione alla consapevolezza della propria forza, alla speranza di farcela che caratterizza gli ultimi anni della prigionia.

Una notte di 12 anni non esplora solo una pagina buia della storia uruguayana, in cui la vicenda dei protagonisti testimonia le enormi potenzialità dell’uomo, in grado di aggrapparsi a tutto pur di sopravvivere per poi risorgere dalle proprie ceneri e può essere letta come metafora di un paese capace di rigenerarsi, ma fa riflettere su un mondo contemporaneo sempre più intransigente e dominato da sentimenti di paura e rabbia, mantenendo una forte connotazione di speranza e apertura verso il futuro.

Il trailer de Una notte di 12 anni

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Scilla Santoro
Giornalista pubblicista e insegnate, collabora con Cinefilos.it dal 2010. E' appassionata di cinema, soprattutto italiano ed europeo. Ha scritto anche di cronaca, ambiente, sport, musica. Tra le sue altre passioni, la musica (rock e pop), la pittura e l'arte in genere.
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