Beixi Moshuo: recensione del film di Liang Zhao #Venezia72

Beixi Moshuo recensione film

Secondo Giobbe, nella Bibbia, il quinto giorno Dio creò la bestia Behemoth, un essere immondo e leggendario bisognoso di una quantità di cibo enorme, il prodotto di migliaia di montagne. Nonostante sia romantico (nel senso letterario del termine) provare a immaginare un animale gigantesco dalla stramba forma, che si aggira possente e indisturbato sulle colline del mondo, Liang Zhao nel suo Beixi Moshuo (Behemoth per l’appunto) non fa che metterci di fronte a uno specchio, per mostrarci che in realtà il mostro siamo noi (del resto la parola originale che figura nella bibbia è una forma plurale di ‘animale’ (bəhēmāh), ed è usanza nella lingua ebraica pluralizzare un nome per esprimerne la grandezza al singolare).

 

Noi avidi, noi folli, noi insaziabili, che abbiamo distrutto il pianeta razziando senza regole i beni primari, che abbiamo scavato nelle profondità più remote per tramutare il carbone, l’oro, i metalli, in qualcosa d’altro, di nuovo, che probabilmente neppure ci serve e non ci servirà. Novantacinque minuti privi di dialoghi che focalizzano tutto sulla potenza visiva della realtà, così da farci osservare inermi migliaia di minatori lavorare nelle viscere della Terra, altrettanti camion in fila indiana trasportare i materiali raccolti verso altri lidi, fiumi di acciaio incandescente come lava che fa da cornice perfetta all’inferno dei vivi. Vivi ricoperti di sudore, che lasciano il loro volto ricoprirsi di cenere e carbone per nascondersi dietro una maschera nera, umida, e camuffare la fatica; uomini che soffrono sperando in una ricompensa, in un aldilà, per la quale sono disposti anche a rinunciare alla propria vita. Passare infatti gran parte dell’esistenza respirando metalli e polveri di ogni genere ha un lato oscuro, che parla inevitabilmente la lingua della malattia.

Beixi Moshuo

Ciò che segue la stanchezza è dunque la pena fisica, il dolore, il purgatorio di chi aspetta la liberazione da tutti i mali. Secondo il giovane regista cinese, classe 1971, il paradiso, la libertà, è però amara, un inganno di dimensioni colossali, come gli sterminati quartieri di cemento – perfetti, puliti, con grattacieli altissimi, corredati di strade larghe, precise – che sono stati edificati in Cina negli ultimi decenni. Città fantasma, che si reggono su una spina dorsale fatta dell’acciaio e del sacrificio di tutti i lavoratori di cui abbiamo raccontato sopra e che nessuno abita.

I semafori scattano a vuoto, gli incaricati alla pulizia possono attraversare le grosse arterie senza neppure guardare, il Behemoth può continuare a nutrirsi senza che nessuno riesca a fermarlo. Un documentario disperato, girato con un rigore tecnico assoluto e un uso dei colori chirurgico, quasi appassionante; con il valore aggiunto di un narratore poetico, un simbolismo fetale e un uso delle lenti – che spezzano, tagliano l’immagine, come a voler ferire l’universo – da prodotto memorabile. Sempre che si abbia la pazienza e la voglia di osservare, di subire, e – coraggiosamente – ricominciare.

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