In Rabin, The Last Day, dopo un grande comizio politico organizzato nel cuore di Tel Aviv la sera del 4 novembre 1995, il primo ministro Yitzhak Rabin viene raggiunto da tre colpi di pistola e assassinato da un fanatico fondamentalista. Un ebreo osservante di 25 anni, convinto che la politica dell’ex militare israeliano stesse portando solo alla distruzione dello Stato d’Israele. Un prodotto del costante odio sociale di quei tempi, che portava in strada insulti gratuiti e cieca violenza, e che costringeva le alte cariche dello Stato a girare pubblicamente con numerosi membri di scorta. Un paradosso, se si pensa che solo nel 1994, appena un anno prima rispetto all’assassinio, lo stesso Rabin riceveva insieme a Shimon Peres e Yaser Arafat il Premio Nobel per la Pace.
L’episodio ha
ovviamente cambiato la storia recente mondiale, e Amos
Gitai, da cittadino e artista sensibile qual è, non ha
dimenticato. Al contrario ha conservato tutto in gola, come un
respiro strozzato, sino a girare Rabin, The Last
Day. Un lavoro doloroso che mescola elementi
documentari ad altri di pura finzione, con il fine di ricreare le
atmosfere dell’epoca, di entrare nelle aule di tribunale incaricate
di indagare sull’omicidio e le sue cause scatenanti. Il dipinto
generale che fuoriesce, desolante, racconta di un mondo oscuro
monopolizzato da rabbini estremisti, capaci con le loro maledizioni
talmudiche di scatenare isteria collettiva. Isteria che unita alle
campagne martellanti dei militanti di destra è riuscita, alla fin
della fiera, ad agire per mano di un soggetto fragile, delirante, e
raggiungere lo scopo finale dell’eliminazione materiale del
‘traditore’. Uno scopo sognato da tutti quei coloni israeliani
militanti che consideravano la pace una pugnalata alle spalle,
quell’Accordo di Oslo costato tanta fatica alle maggiori potenze
politiche del mondo, Stati Uniti in primis.
La foto che ritrae la stretta di mano fra Rabin e Arafat sotto lo sguardo amichevole di Bill Clinton è del resto già presente in tutti i libri di storia. Nonostante una durata forse eccessiva, che infrange il muro dei 150 minuti, e una parte centrale dispersiva, il tributo a Yitzhak Rabin nel ventesimo anniversario della morte è un prodotto profondamente interessante e tristemente attuale.
L’odio del quale si parla nel film non appartiene solo al passato, diventa così ancor più importante ricordare. Se poi lo si fa con la classe e lo sguardo solenne di Amos Gitai, che ancora una volta non rinuncia ai suoi adorati piano sequenza infiniti e a una narrazione dettagliata, tutto acquista un valore ulteriore, al di là della superficie.