In un bianco e nero elegante e pastoso, Andrei Konchalovsky torna in Concorso a Venezia 73 con Paradise (Rai), un film che nel titolo espone il suo scopo, il suo senso ultimo: la ricerca per l’uomo di un paradiso misterioso e sconosciuto, che per alcuni è il tradizionale oltretomba tra gli angeli, secondo la propria fede, per altri è la realizzazione di un sogno in terra. Lo scopriamo solo successivamente che questo sogno è quello della perfezione razziale nazista, della pulizia etnica, dell’orrore che tante volte è stato raccontato al cinema.

 

Attraverso tre interrogatori di un soldato tedesco, una prigioniera ebrea-russa e un poliziotto francese, entriamo a far parte dell’orrore dei campi di sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale. La prospettiva inedita ci consegna un racconto molto lungo, 130 minuti, in cui una prima parte relativamente farraginosa ci mostra solo quadri e momenti apparentemente non legati tra loro. Il film si fa più coeso nella seconda parte, dove la violenza imperversa unitamente a una storia d’amore atipica, tratteggiata con pennellate altrettanto insolite dal regista che segue i personaggi sempre da una distanza di sicurezza. La camera fissa, i fuori campo, ciò che accade ma che non vediamo si fa parte integrante e fondamentale di un racconto doloroso.

L’intensità di Konchalovsky si fa opera d’arte nel momento in cui riscrive la Shoah come una convinzione, senza giustificare, ma adottando i punti di vista di vittime e carnefici. Perché alla fine, come ci dice l’eroina della storia, il male fluisce incontrollato, mentre il bene ha bisogno di un piccolo aiuto, un contributo che possa portare frutto.

Con Paradise, Andrei Konchalovsky si conferma il maestro di un cinema difficile ma capace di contribuire non solo all’arte ma anche alla persona, al bene.

Paradise

- Pubblicità -