Brutti sporchi e cattivi nell’Era del cinecomic supereroistico. Potrebbe essere riassunto così, con il giusto grado di approssimazione, Lo chiamavano Jeeg Robot, film di Gabriele Mainetti con uno stropicciato Claudio Santamaria nei panni di un eroe riluttante.
Enzo è un ladruncolo qualunque, un disgraziato che vive di film porno e yogurt, chiuso in quattro mura a Tor Bella Monaca, nella periferia romana, insieme alla sua disperata solitudine. Un giorno, mentre cerca di sfuggire all’arresto per il furto di un orologio, Enzo cade nel Tevere, dove viene esposto ad agenti chimici, buttati da chissà chi sul letto del fiume. Qualcosa di straordinario lo investe, qualcosa che lui stesso fatica a capire come e che gli cambierà completamente la vita e la prospettiva.
Gabriele
Mainetti, alla sua opera prima dopo essersi messo alla
prova con il cortometraggio, confeziona un film che, rimanendo
perfettamente fedele alla realtà in cui è immerso, si affaccia al
cinema internazionale con straordinaria efficacia, senza perdere
mai di vista la sua vera identità. Senza paura di essere smentiti o
di esagerare in alcun modo, La chiamavano Jeeg
Robot è una delle migliori storie di supereroi
raccontate sul grande schermo degli ultimi anni. La genesi, la
presa di coscienza, il sorgere di una nemesi, la perdita, la
sofferenza e infine l’accettazione del proprio scopo nel mondo sono
calati nella sporcizia e nella povertà di una periferia senza
speranza, conferendo un’aura sofferta ma anche buffa allo splendido
protagonista, Claudio Santamaria, che affronta in
maniera straordinariamente umana una trasformazione sovrumana. Pur
arenandosi nella parte centrale perdendo il ritmo narrativo in
favore dell’indagine sui personaggi, il film di Mainetti si fregia
di un’ottima regia e di grandi interpreti, protagonisti e
comprimari, raccontando una storia a metà tra realtà e fantasia,
senza cedere alla spettacolarizzazione a cui siamo ormai assuefatti
e concentrandosi sui caratteri e sulle emozioni.
I riferimenti cinematografici illustri sono innumerevoli, dalle inquadrature mutuate da Il Cavaliere Oscuro, alla colonna sonora che ricorda in maniera molto precisa quella de L’uomo d’Acciaio, fino al villain splendidamente folle di Luca Marinelli, che, truccato in maniera eccessiva, sfigurato e pazzo, sembra una crasi all’amatriciana (nel senso migliore del termine) dei Joker di Jack Nicholson e Heath Ledger.
La forza del film però risiede nel fare propri tutti questi riferimenti, palesandoli con onestà e cucendoli addosso a un tessuto narrativo italiano nell’anima e universale nel linguaggio.