The Hateful Eight: recensione del film di Quentin Tarantino

The Hateful Eight

Che Quentin Tarantino sia un regista e un autore scomodo è chiaro pressoché a tutti, dopo ventinove anni di violenta e viscerale carriera. La sua arte di dividere costantemente il pubblico di massa, la stampa specializzata, gli appassionati fedeli e persino l’Academy, che si relaziona con lui sempre imbardandosi come un tecnico nucleare nella camera del nocciolo, è ormai una tradizione a cui nessuno vuole rinunciare. Lui stesso in primis, poiché grazie a questo ha imparato a essere anarchico, libero, scanzonato, ironico, solenne, esattamente come il suo ottavo film, che ovviamente ha preferito chiamare The Hateful Eight, l’odioso otto.

 

Un numero simbolo dell’intera pellicola (questa volta in senso letterale visto l’uso dei gloriosi 70mm) che racchiude al suo interno altrettanti personaggi, i volti pesanti di Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen e Bruce Dern.

The Hateful Eight

È proprio il cast l’elemento fondamentale di The Hateful Eight, Tarantino prende le voci e i corpi dei suoi protagonisti per raccontare le ombre dell’umanità e dell’uomo, che per istinto è – dalla sua esistenza – brutale, dedito alla sopravvivenza, con occhi rivolti solo al proprio tornaconto personale. Torniamo indietro in un‘epoca in cui la legge rappresentava solo una delle strade possibili e il confine fra la vita e la morte era talmente sottile da essere spesso invisibile. Un secolo in cui i contrasti dominavano su qualsivoglia equilibrio e generavano guerre quotidiane: bianchi contro neri, sudisti contro nordisti, sceriffi contro criminali, furbi contro ingenui, proprietari terrieri contro schiavi, morale contro realtà. Il vero cruccio, alla fin della fiera, è però: siamo sicuri che tutto questo appartenga al passato?

Calibrando in modo maniacale ogni dialogo e ogni inquadratura, e incastrando tutto in una messa in scena che meriterebbe di essere mostrata nelle scuole di cinema, il regista texano crea un non-luogo distaccato dal tempo, una dimensione parallela in cui si avvicendano e affrontano caratteri differenti, ma senza vincitori né vinti. Una versione ulteriormente dilatata della lunga scena iniziale di Bastardi Senza Gloria, tagliente come gli occhi negli occhi del colonnello Hans Landa e del signor LaPadite, intenti a giocare una partita a scacchi con la morte. Del resto la fotografia porta ancora la firma, più che riconoscibile, di Robert Richardson, che realizza un lavoro chirurgico, caldo e glaciale all’occorrenza, saturo nei colori, ricco di zone d’ombra come di potenti coni di luce, perfetto specchio dei personaggi che illumina. A completare la tela, le partiture decise del maestro Ennio Morricone, autore fondamentale per il regista de Le Iene e Kill Bill nonostante gli screzi che puntualmente arrivano a ogni produzione.

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Dissipati tutti i dubbi riguardanti la scelta di girare ancora un western dopo l’irriverente Django Unchained del 2012, poiché si rischiava di creare un noioso clone, Tarantino ci mette dinanzi a un lavoro magistrale, agli antipodi rispetto al suo predecessore. Passato lo sfizio di girare un film con tinte da B-movie, fumettose e al di là “di ogni legge fisica”, i toni si sono fatti più seri, maturi, intrisi di critica feroce oltre che di altissima tecnica.

L’omaggio definitivo al più impegnato Sergio Corbucci che, nonostante una prima parte un po’ ostica da digerire a freddo, una volta ingranata la marcia si fa inarrestabile e indimenticabile. La totale assenza fra le nomination “che pesano” agli Oscar 2016 (se escludiamo la fotografia, la colonna sonora e Jennifer Jason Leigh) poi non fa che relegare The Hateful Eight in un’altra categoria, al di sopra della legge del mercato, là dove si annida l’arte più pura e il cinema d’altri tempi è sempre dolorosamente attuale. Una lezione in piena regola.

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