Die, My Love: recensione del film con Jennifer Lawrence – Cannes 78

Jennifer Lawrence ruba la scena in un'odissea mentale dove la casa è prigione e il corpo campo di battaglia  

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«Sono proprio qui davanti, non riesci solo a vedermi». Con questa frase, pronunciata quasi sottovoce, Jennifer Lawrence dà voce al nucleo pulsante di Die, My Love, film di Lynne Ramsay in concorso a Cannes 78 e tratto dal romanzo Matate, amor di Ariana Harwicz. È il grido invisibile di una donna che prova disperatamente a resistere, a non svanire nel silenzio, nella solitudine e nelle aspettative soffocanti che la circondano. È lì, davanti agli occhi di tutti, eppure nessuno riesce davvero a vederla.

 
 

Da Madre! all’incubo psicotico di Lynne Ramsey

La Grace interpretata da Lawrence è una donna che urla, desidera, consuma e distrugge. Autrice di romanzi, parte da New York e si trasferisce con il marito (Robert Pattinson) nella vecchia casa di campagna dello zio, a pochi chilometri dalla suocera da poco rimasta vedova. Qui, Grace rimane incinta e, sotto il peso della noia, dell’isolamento e della depressione post-partum, inizia a cambiare per sempre.

Qui, Lawrence non è più la figura sacrificale e martoriata di Madre! di Darren Aronofsky – a cui pure il personaggio sembra inizialmente rimandare – ma la sua nemesi: non è travolta dagli eventi, semmai, li travolge. La sua crisi non è quella di chi implode, ma di chi esplode. È un corpo in rivolta, animale e famelico, in cerca di un senso attraverso la carne, il sesso, il suono, la rabbia. In cerca di un’uscita che non esiste.

Non si può scampare a Grace

Lynne Ramsay, qui in una delle sue prove più viscerali e spietate, firma un film che non chiede di essere interpretato, ma attraversato. È un’esperienza che investe sensorialmente lo spettatore, a partire dalla colonna sonora che fonde country e punk rock, fino alla fotografia sfocata ai margini, come se la realtà stesse collassando ai bordi dello schermo. Grace è sempre al centro della scena: ingombrante, disturbante, affascinante. È lei che determina il ritmo della narrazione, un ritmo sfasato, sincopato, incapace di trovare una cadenza stabile.

L’ambientazione è quella di un’America rurale non ben definita, ma profondamente radicata nel suo immaginario culturale: una casa isolata nel verde, lontana dalla città (sappiamo che Grace e Jackson vengono da New York), immersa in un paesaggio sonoro carico di insetti, motori, silenzi pieni di tensione. I suoni della campagna diventano rumore mentale. Un luogo teoricamente pacifico che però vibra di disagio, diventando uno specchio della mente della protagonista.

C’è un romanzo da scrivere, e Grace ci prova. Come la protagonista di Nightbitch, anch’essa madre e autrice in piena crisi di nervi, anche lei lotta contro una quotidianità che respinge ogni tentativo di creazione e di comprensione. E mentre cerca di dare forma al proprio pensiero, la casa attorno a lei si fa sempre più ostile. Una prigione mentale dove i tentativi di contatto con il marito falliscono sistematicamente, e dove l’unico confronto realmente significativo avviene con la madre di lui, in un western psicologico che mette a confronto anche due generazioni di donne.

Jennifer Lawrence in Die, My Love
Jennifer Lawrence in Die, My Love

Il sesso, inizialmente onnipresente, urgente, viene via via sostituito da un vuoto che si allarga. I corpi che si cercano non si trovano più. Il desiderio lascia spazio alla rabbia, all’insofferenza, all’istinto di fuga. Grace diventa predatrice in un mondo che le chiede di essere preda. E lo fa in modo disturbante, feroce, a tratti respingente. Ramsay non indora la pillola: non c’è empatia da spettatore, non c’è catarsi. Solo una spirale che non promette risalite.

Che possiamo vivere a lungo… e poi estinguerci

Le esplosioni emotive di Grace si fanno sempre più violente e imprevedibili, ma Ramsay non offre mai una spiegazione. Non tutto ha un’origine rintracciabile, non tutto ha una cura. Die, My Love è una discesa agli inferi senza Virgilio, una corsa cieca verso un’uscita che forse non esiste. Come la sua protagonista, il film pretende di essere guardato dritto negli occhi, senza filtri. Non si può restare neutrali: o si entra con lei nel suo inferno infiammato – nel suo “soundcheck infuocato”, come suggerisce uno dei momenti visivamente più potenti del film – oppure si rimane fuori, nella stessa casa che ha già consumato e respinto tutti gli uomini della sua famiglia.

C’è una frase che riecheggia alla fine, quasi un’implosione nichilista ma lucidissima: «Che possiamo vivere a lungo… e poi estinguerci». Forse è proprio questo il senso ultimo del film. Non la speranza, non la rinascita, ma la resistenza. Una resistenza disperata, violenta, animalesca. L’urlo di chi non chiede di essere salvato, ma solo riconosciuto. Anche se per un solo, dannato istante.

Die, My Love
3.5

Sommario

Die, My Love di Lynne Ramsay è un viaggio sensoriale e disturbante nella mente di una donna in crisi, interpretata da una intensa Jennifer Lawrence. Isolata nella campagna americana, Grace esplode in una spirale di rabbia e desiderio, rifiutando ogni ruolo prestabilito. Ramsay firma un’opera viscerale, senza filtri né catarsi, dove il disagio si fa materia narrativa. Un film che non cerca redenzione, ma urla per essere visto.

Gianmaria Cataldo
Gianmaria Cataldo
Laureato con lode in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza e iscritto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio come giornalista pubblicista. Dal 2018 collabora con Cinefilos.it, assumendo nel 2023 il ruolo di Caporedattore. È autore di saggi critici sul cinema pubblicati dalla casa editrice Bakemono Lab.

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