Brutti sporchi e cattivi nell’Era del cinecomic supereroistico. Potrebbe essere riassunto così, con il giusto grado di approssimazione, Lo chiamavano Jeeg Robot, film di Gabriele Mainetti con uno stropicciato Claudio Santamaria nei panni di un eroe riluttante.
Enzo è un ladruncolo qualunque, un disgraziato che vive di film porno e yogurt, chiuso in quattro mura a Tor Bella Monaca, nella periferia romana, insieme alla sua disperata solitudine. Un giorno, mentre cerca di sfuggire all’arresto per il furto di un orologio, Enzo cade nel Tevere, dove viene esposto ad agenti chimici, buttati da chissà chi sul letto del fiume. Qualcosa di straordinario lo investe, qualcosa che lui stesso fatica a capire come e che gli cambierà completamente la vita e la prospettiva.

I riferimenti cinematografici illustri sono innumerevoli, dalle inquadrature mutuate da Il Cavaliere Oscuro, alla colonna sonora che ricorda in maniera molto precisa quella de L’uomo d’Acciaio, fino al villain splendidamente folle di Luca Marinelli, che, truccato in maniera eccessiva, sfigurato e pazzo, sembra una crasi all’amatriciana (nel senso migliore del termine) dei Joker di Jack Nicholson e Heath Ledger.
La forza del film però risiede nel fare propri tutti questi riferimenti, palesandoli con onestà e cucendoli addosso a un tessuto narrativo italiano nell’anima e universale nel linguaggio.

