Con Un Simple Accident, Jafar Panahi torna alla regia dopo anni di silenzio forzato, portando in concorso al Festival di Cannes un’opera tanto minimale nei mezzi quanto dirompente nel contenuto. Il film segna anche il suo ritorno pubblico: è la prima volta in quattordici anni che il regista iraniano riesce a lasciare il Paese per accompagnare personalmente una propria opera, accolto da una lunga e commossa ovazione al Grand Théâtre Lumière. Non si tratta solo di una presenza simbolica, ma di un gesto politico e artistico che rafforza il valore già altissimo del film.
La trama di Un Simple Accident
La storia si apre con una scena ordinaria, quasi dimessa: una famiglia viaggia di notte su un’auto sgangherata lungo una strada deserta. Il padre, Eghbal, investe un cane e il guasto che ne deriva li costringe a fermarsi in un’officina. Lì si trova Vahid, un uomo segnato dalla prigione, che riconosce nell’andatura claudicante del conducente — provocata da una protesi — il suo ex aguzzino. Da quel momento la narrazione vira bruscamente: Eghbal viene sequestrato, portato nel deserto e costretto a scavarsi la fossa. Ma Vahid non riesce a chiudere il cerchio: il dubbio si insinua, e con esso nasce la necessità di confermare quell’identità.
Un simple accident diventa così un road movie atipico, claustrofobico e pieno di incertezze, costruito attraverso una serie di tappe che mettono in discussione ogni presunta verità. Vahid cerca testimoni tra gli ex detenuti che, come lui, hanno subito torture da parte dello stesso uomo: una fotografa, una giovane donna che si sta per sposare, una ex coppia. Tutti raccontano le stesse violenze, ma nessuno può affermare con sicurezza che quell’uomo — ora prigioniero e in silenzio — sia davvero il responsabile. In molti casi, l’unico ricordo che rimane è un dettaglio sensoriale: l’odore del sudore, un suono familiare, un’impressione fisica rimasta impressa nella memoria più del volto.
Il film riflette in modo diretto e tagliente su ciò che accade quando la giustizia istituzionale viene meno, e lascia spazio al sospetto, all’odio, alla tentazione di farsi giudici e carnefici. Ma al centro del racconto c’è sempre il dubbio, che non solo frena l’azione, ma la disarma. Anche quando tutti sembrano concordi sulla colpevolezza, resta la domanda: “E se ci sbagliassimo?”
Con mezzi limitati e attori in gran parte non professionisti, Panahi costruisce un’opera compatta, priva di orpelli, che lavora per sottrazione. La tensione cresce con naturalezza, grazie a una regia che dosa con precisione il tempo e lo spazio. Gli ambienti — quasi sempre chiusi o notturni — contribuiscono a creare un senso di isolamento e di precarietà. Il montaggio evita l’enfasi, mentre il suono ha un ruolo centrale: nel finale, un’inquadratura apparentemente neutra è resa disturbante proprio da ciò che si sente, non da ciò che si vede.
Raccontare l’Iran
Come già accaduto in Taxi Teheran o No Bears, Panahi fa della semplicità un punto di forza. La messa in scena è scarna, ma ogni elemento — un’inquadratura fissa, un silenzio prolungato, un rumore fuori campo — ha un peso specifico. E se il film prende spunto da un’esperienza personale, Panahi evita l’autobiografismo diretto per costruire un racconto corale, in cui l’Iran contemporaneo è rappresentato attraverso una serie di volti e storie che si intrecciano nella precarietà della sopravvivenza.
Durante la conferenza stampa, Panahi ha parlato apertamente della propria detenzione nella famigerata prigione di Evin, raccontando condizioni di vita al limite dell’umano e interrogatori quotidiani. Ha spiegato come il film sia nato proprio da quella esperienza: «In un certo senso, non sono io ad aver fatto questo film. È la Repubblica Islamica che l’ha fatto, perché mi ha messo in carcere». E ha poi rivolto un pensiero ai colleghi e agli artisti che ancora oggi non possono lavorare: «Oggi sono qui con voi, ma dietro di me c’è un muro. E dietro quel muro ci sono ancora tanti altri che sono rimasti dentro».
Un simple accident è un film che parla di vendetta, giustizia, memoria e trauma, ma lo fa evitando la retorica. È un’opera che pone domande più che offrire risposte, e che racconta un Paese dove i confini tra vittima e carnefice si confondono, dove la verità è sempre filtrata dalla paura e dal dolore. Panahi firma così uno dei film più potenti e necessari della sua carriera: un’opera compatta, etica, politica, ma anche umanissima. E conferma ancora una volta la sua centralità in un cinema che resiste, anche quando tutto sembra spingerlo verso il silenzio.
Un Simple Accident
Sommario
Con Un simple accident, Jafar Panahi firma una delle opere più intense e politicamente consapevoli della selezione di Cannes 2025. Un film che, partendo da un episodio minimo, si allarga fino a toccare i nodi più profondi dell’Iran contemporaneo, senza perdere mai il senso della misura né quello dell’urgenza.