Crudeltà, disillusione, sadismo e alienazione. Questi sono solo alcuni dei cardini su cui si muove l’ultimo e decisivo ritorno di Squid Game, che approda su Netflix il 27 giugno con la sua terza e ultima stagione, dopo un’attesa snervante e una diffusa dose di scetticismo. La serie sudcoreana che ha consacrato la K-wave nell’Olimpo della serialità globale, portando Netflix ai vertici dello streaming internazionale, è pronta quindi a riaprire i giochi. Ma sarà ancora in grado di sorprendere, sconvolgere e, soprattutto, far riflettere?
Con la sua seconda stagione, arrivata lo scorso dicembre, la serie ha diviso profondamente pubblico e critica: se da un lato alcuni spettatori vi hanno intravisto un ponte necessario verso un epilogo decisivo, dall’altro – e forse in maggioranza – l’accoglienza è stata tiepida, se non apertamente delusa. L’atmosfera carica di tensione, il simbolismo sociale e la critica feroce al capitalismo, che avevano segnato il successo della prima stagione, sembravano aver perso mordente, lasciando spazio a soluzioni narrative forzate e a personaggi più interessanti sulla carta, ma sviluppati poco e resi meno incisivi sullo schermo.
Proprio per questo, la terza stagione porta ora sulle spalle il peso di una doppia responsabilità: riscattare le ambizioni tradite della seconda e offrire un congedo all’altezza di una serie diventata icona globale.
Squid Game 3: dove eravamo rimasti?
Rientrato nel gioco con l’unico scopo di smascherare il Front Man (Lee Byung-hun) e porre fine all’incubo dell’isola dell’orrore, Gi-hun (Lee Jung-jae) organizza una ribellione armata, a suon di mitra e disperazione, insieme ad alcuni compagni. Ma, inconsapevole di aver riposto la fiducia proprio nel suo nemico più insidioso, il piano fallisce. Tra i caduti e le illusioni spezzate, Gi-hun sprofonda in un abisso di colpa e impotenza, divorato dal sospetto che quelle atrocità siano impossibili da fermare: ha ancora senso lottare per il bene dell’umanità? Esiste davvero una via di redenzione?
Mentre Gi-hun si chiude sempre più nella sua apparente resa, il Front Man prepara la prossima mossa, dopo aver assestato l’ennesimo scacco matto. Intanto, le scelte dei giocatori sopravvissuti, sempre più irrazionali e disumane, trascinano ogni round verso conseguenze irreparabili.
Tra disperazione, follia
e fantasmi
La terza stagione riprende esattamente da dove eravamo rimasti, proseguendo la narrazione senza sbalzi né omissioni. Ma qualcosa è cambiato. Rispetto alle puntate precedenti, è calata la notte: l’atmosfera si fa ancora più cupa e tesa, fino a fondersi con l’animo dei protagonisti. L’ambientazione colorata e infantile, che aveva fatto da sfondo agli orrori della prima stagione, ora si dissolve, diventando un riflesso distorto dei personaggi stessi. Viene dunque meno l’illusione del gioco e dell’infanzia: al suo posto subentra una dimensione sospesa, surreale, dove i vizi e i mali dell’animo umano si condensano in un inferno terrestre. I gironi danteschi sono soppiantati da turni di gioco, e ogni round sembra scavare più a fondo nell’oscurità dell’animo umano. La storia prende così la piega dell’incubo: i giocatori perdono la lucidità, e l’ingenuità, degli episodi precedenti, lasciando spazio a un alone di follia necessario per prevalere, sopraffare gli altri, e salvarsi. Se stessi, e il denaro in palio.
Inoltre, la narrazione si arricchisce di numerose sottotrame che si intrecciano e coesistono, ma non tutte riescono a mantenere la tensione o a suscitare l’interesse sperato. Per esempio, la storyline delle guardie coinvolte nel traffico illegale di organi, così come quella del detective Hwang Jun-ho, impegnato a rintracciare il fratello scomparso e a localizzare l’isola, risultano spesso marginali, se non addirittura superflue. Il loro sviluppo intermittente e a tratti macchinoso finisce per rallentare il ritmo complessivo, distogliendo l’attenzione dal cuore emotivo della stagione: Gi-hun. Se l’impatto iniziale di Squid Game era legato alla crudeltà spiazzante dei giochi, ora l’elemento che trattiene davvero lo spettatore è il destino di Gi-hun e il suo legame con la bambina che cerca di proteggere.
Una vita che nasce dove la morte regna
Tra i legami più intensi della terza stagione spicca l’alleanza inaspettata tra tre figure femminili: la giocatrice 120 (interpretata da Park Sung-hoon), una donna trans sudcoreana; Geum-ja (giocatrice 149, Kang Ae-shim), madre sessantenne dal temperamento dolce ma determinato; e Kim Jun-hee (giocatrice 222, Jo Yu-ri), ragazza madre incinta, schiva e diffidente. Tre donne – quasi quattro – a cui il regista affida il compito di incarnare una fragile speranza d’umanità nel cuore del disumano. In un contesto in cui ogni rapporto sembra fondato su opportunismo e sopraffazione, la loro è un’alleanza intima, radicale, costruita sulla cura reciproca e non sulla competizione.
Il momento più emblematico arriva quando Jun-hee dà alla luce sua figlia con accanto solo Geum-ja, mentre attorno infuriano grida e sangue. Quel parto, nel mezzo di un gioco mortale, non è solo un atto di sopravvivenza, ma una forma di resistenza silenziosa: dove il sistema impone distruzione, loro scelgono il coraggio della vita e di una seconda opportunità.
La maternità – non solo biologica, ma politica – si fa così simbolo di solidarietà e coraggio intergenerazionale, di trasformazione del trauma e di ribellione al meccanismo stesso dei giochi. In una scena tanto breve quanto potente (come quella del parto) si concentra quindi uno dei significati più profondi della serie: la possibilità, anche nel cuore dell’inferno, di preservare la propria umanità e di proteggere la vita.
Una terza stagione
superflua, ma che si fa guardare
Nonostante molti concordino sul fatto che Squid Game avrebbe potuto concludersi in modo compiuto già con la prima stagione, Hwang Dong-hyuk sceglie di proseguire, spingendo lo spettatore dentro una visione più matura, disillusa e forse ancora più inquieta. C’è da dire che il pubblico è cambiato, ed è cambiato anche il mondo attorno. Oggi, in un’epoca in cui le notizie quotidiane sono intrise di morte, bombardamenti, guerre e crisi sanitarie, la domanda che attraversa sottopelle tutta la terza stagione – C’è ancora speranza nell’umanità? – risuona con una forza nuova, cruda, necessaria.
Dong-hyuk sembra volerci dire che il vero orrore non è nei giochi, ma nella normalità che li rende plausibili. Squid Game, pur nella sua estetica iper-violenta e nel suo universo infernale, continua a essere una potente allegoria dei meccanismi spietati della società contemporanea. Le dinamiche di esclusione, sopraffazione e disumanizzazione che regolano la finzione non sono altro che una lente estrema su ciò che spesso ignoriamo nella realtà. Dietro le scene disturbanti e le prove letali, la serie affonda lo sguardo nel disfacimento morale dell’individuo moderno, dove l’empatia è un lusso e la solidarietà una strategia inefficace. La logica del mors tua, vita mea non è solo il motore narrativo dei giochi: è il riflesso più spietato della nostra quotidianità. E in questo specchio deformante e lucidissimo, Squid Game trova la sua urgenza politica, sociale e culturale più forte.
Squid Game 3
Sommario
Squid Game, pur nella sua estetica iper-violenta e nel suo universo infernale, continua a essere una potente allegoria dei meccanismi spietati della società contemporanea.