Con Warfare – Tempo di Guerra, Alex Garland e Ray Mendoza firmano probabilmente la rappresentazione più cruda e accurata dell’esperienza del fronte di guerra contemporaneo. Siamo lontani dalle lande desolate e dalle terre di nessuno di Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale di Edward Berger. Warfare ci porta nella guerra di oggi, quella che si combatte nelle case e per le strade. La respiriamo insieme alla polvere della confusione che deflagra subito dopo l’inizio dello scontro. Lo spettatore sente l’odore acre della cordite, il ferro del sangue nella gola. Non c’è scampo, se non quello offerto dalle luci di sala a fine proiezione. L’esperienza è tanto fisica quanto emotiva, un’immersione nel caos che richiama gli incubi collettivi evocati da Steven Spielberg nei primi minuti di Salvate il soldato Ryan.
Un’esperienza sensoriale senza scampo
Tradizionalmente, il cinema bellico tende a giustificare la sofferenza attraverso cornici di senso: patriottismo, eroismo, redenzione. Garland e Mendoza infrangono deliberatamente questa regola non scritta. Warfare – Tempo di Guerra non offre né bandiere sventolanti né melodrammi consolatori. Al contrario, priva lo spettatore di ogni appiglio emotivo convenzionale: niente backstory, niente monologhi, nessuna costruzione di personaggi a cui aggrapparsi. Nessuna identità: i Navy SEALs che seguiamo potrebbero essere chiunque, e proprio in questo anonimato sta la loro forza. La guerra non ha bisogno di essere romanzata o drammatizzata: è già, di per sé, un incubo sufficiente.
La storia vera di una giornata qualunque
La vicenda narrata è tratta dalle memorie dello stesso Mendoza, ex Navy SEAL rimasto intrappolato con la sua squadra a Ramadi nel 2006. Non una “battaglia storica” in senso tradizionale, ma un episodio reale, di quelli che non finiscono sui libri ma che segnano in maniera indelebile chi li ha vissuti. Ed è proprio in questa scelta di concentrarsi su un evento circoscritto, apparentemente marginale, che il film trova la sua radicalità: non la grande Storia, ma la microstoria di uomini costretti a sopravvivere a una giornata infernale, dove procedure e protocolli collassano sotto la pressione del fuoco nemico.
Il sodalizio tra Garland
e Mendoza funziona a meraviglia. Garland porta la sua visione
estetica e la precisione chirurgica del linguaggio filmico; Mendoza
fornisce l’esperienza diretta, la memoria muscolare della guerra,
guidando gli attori verso una fisicità credibile e priva di
retorica. Ne risulta un’opera “a quattro mani” in cui la grammatica
del cinema incontra la verità del ricordo e dell’esperienza
diretta. Non c’è invenzione drammaturgica: tutto è basato su
testimonianze, e la scrittura si riduce al minimo
indispensabile.
Se i nomi coinvolti – da Will Poulter a Joseph Quinn, da Charles Melton a Cosmo Jarvis fino a Kit Connor – sono tra i più promettenti della nuova generazione, il film non concede spazio a protagonismi individuali. Nessuno domina la scena, perché la forza di Warfare – Tempo di Guerra è la coralità. I soldati sono un organismo unico, un corpo collettivo che si muove tra attese interminabili e esplosioni improvvise. Le dinamiche di gruppo, più che i singoli destini, diventano la vera sostanza narrativa. Lo spettatore non “conosce” i personaggi: li vive, li subisce insieme al resto della squadra.
Oltre le convenzioni del war movie
La struttura del film è esemplare nella sua semplicità. La prima mezz’ora è fatta di attesa: un appartamento occupato a Ramadi, il silenzio interrotto da rumori lontani, la tensione che cresce a ogni sussurro. Poi, improvvisamente, l’inferno: Al-Qaeda attacca e non c’è più tregua. Da quel momento fino ai titoli di coda, Warfare – Tempo di Guerra è un corpo a corpo continuo, girato quasi in tempo reale, senza momenti di respiro. Lo spettatore è incatenato a quei soldati, costretto a condividere ogni proiettile, ogni scheggia, ogni urlo.
Il realismo è la cifra
assoluta del film. La macchina da presa alterna sguardi composti e
studiati a momenti convulsi, in cui sembra di dover schivare
fisicamente i colpi. Il sonoro è una tortura necessaria: esplosioni
che scuotono la sala, urla che lacerano l’udito, il rombo degli
aerei che sembra spezzare l’aria stessa. Nessuna colonna sonora a
guidare l’emozione: la guerra non ha bisogno di archi o ottoni. Non
c’è epica, non c’è scopo, solo la disperata ricerca della
salvezza.
Nonostante la prospettiva americana, Warfare – Tempo di Guerra non cade mai nella trappola della glorificazione. Non ci sono eroi, non c’è nobiltà, non c’è senso. C’è solo l’assurdità della sopravvivenza, la casualità di chi cade e chi si salva. In questo, il film si avvicina più al cinema documentario che al cinema hollywoodiano di guerra. La scena finale, con una donna irachena che domanda ai soldati “Perché?”, senza ricevere risposta, riassume l’intero spirito dell’opera: la guerra è un enigma senza soluzione, un vortice che inghiotte senza dare spiegazioni.
Un anti-war movie radicale
Il rischio, per alcuni spettatori, sarà di percepire il film come alienante, troppo distante dai codici narrativi rassicuranti del genere. Ma è proprio qui che risiede la sua grandezza: Warfare – Tempo di Guerra non consola, non spiega, non giustifica. Ti trascina dentro e ti lascia esausto, svuotato, con più domande che risposte. È un’esperienza che scuote il corpo prima ancora che la mente, ma che proprio per questo resta impressa con una forza rara.
Alla fine, ciò che resta nello spettatore è un senso di sgomento, ma anche di gratitudine per un’opera che ha il coraggio di guardare la guerra senza veli, né abbellimenti. Warfare – Tempo di Guerra è un film duro, essenziale, a tratti insostenibile. Non fa propaganda, non cerca consensi: mostra e basta. Ed è in questa purezza che trova la sua verità più profonda. Un lavoro rispettosamente spietato, che ridefinisce i confini del war movie contemporaneo.
Warfare - Tempo di Guerra
Sommario
Warfare – Tempo di Guerra è un film duro, essenziale, a tratti insostenibile. Non fa propaganda, non cerca consensi: mostra e basta.