Questo pomeriggio presso lo spazio BNL si è tenuta la conferenza stampa del film fuori concorso Border, di Alessio Cremonini. A presentare il film oltre al regista erano presenti gli attori Sara El Debuch, Dana Keilani, Sami Haddad, Jamal El Zohbi, la co-sceeneggiatrice Susan Dabbous e prodotto da Francesco Melzi d’Eril.
Perché hai voluto
raccontare una storia del genere?
Alessio Cremonini: Perché sono italiano e mi
riguarda molto, nel senso che la Siria ha molte cose in comune con
noi, almeno storicamente, come alcune città dell’impero romano. C’è
stata una foto sul Corriere della Sera bellissima, che
forse mi ha spinto a fare il film, in cui si vedeva una
famiglia siriana rifugiata in una tomba dell’impero romano. E li ho
pensato, se ci fosse la guerra in Italia questo potrebbe accadere
anche alla mia famiglia, rifugiarsi in un posto che una volta era
un tomba romana. Inseguito anche perché Damasco è a poche ore di
volo da qui, qualche papa del medioevo era siriano, un signore che
si chiama San Paolo si è convertito sulla via di damasco e
poi siamo tutti quanti nel mediterraneo e forse noi italiani
siamo i più mediterranei o comunque i più vicini
geograficamente all’altra sponda del mediterraneo. Quindi chi
meglio di noi italiani, può comprendere e magari raccontare agli
altri europei cosa sta accadendo dall’altra parte del mediterraneo.
Ed in aggiunta, mi ha spinto l’indignazione per quello che
accadeva, questo non è un film politico e non vuole assolutamente
esserlo, anche perché è una storia vera, però è un film da
indignato, come lo sono probabilmente tutte le persone che hanno
partecipato e lo hanno fatto, cioè la sceneggiatrice Susan Dabbous
, gli attori protagonisti, il terzo protagonista non è qui oggi
perché in questo momento, grazie ad alcune leggi italiane, non
faccio i nomi dei politici, è dovuto andare via dall’Italia dove
risiedeva da dieci anni e il protagonista maschile Wasim Abo Azan è
ora rifugiato, richiedente asilo politico in Svezia, che è l’unico
paese che accoglie i siriani. Quindi questo film è uno spaccato
della Siria di oggi.
Il film inizia con
delle immagini di repertorio e poi parla dei rapporti umani, questa
scelta dell’intreccio del passaggio di testimone all’interno del
film c’è stato sin dall’inizio e si è evoluto in
seguito?
A.C.: Io ho cominciato a cercare qualche storia,
tramite amici e via dicendo, ed infine mi sono imbattuto in questa
storia, quindi sostanzialmente io e Susan abbiamo cercato di
renderla cinematografica, quindi abbiamo cercato di riportare
quella storia che io avevo incontrato piano piano, facendomi
accogliere dalla comunità siriana. Loro sono stati accolti nel mio
paese e io sono sono stato accolto nel mio paese da loro, è stato
uno scambio e c’è stata anche un arricchimento personale enorme,
quindi in realtà queste entrate uscite purtroppo sono
tendenzialmente della vicenda umana di quelle persone che poi si è
salvata, piccole cose le abbiamo dovute aggiustare. Tutti gli stop
and go di cui tu parli esistevano e dato che volevamo fare un film
che fosse vero, che fosse il più puro possibile abbiamo cercato di
intervenire il meno possibile sulla storia.
Susan Dabbous: Ciò che mi preme dire da giornalista che questa
storia da questa parte del mediterraneo si ha il privilegio di
vedere come spettatori è una storia di tante storie che io ho
raccolto sul campo e che sono tremende ecco. Sono molto contenta di
aver portato questo contributo perché rende questo film reale,
aldilà che sia una storia vera, siamo abituati al cinema a vedere
riprodotte storie vere in modo completamente artefatto. questo è un
film che il direttore del Toronto Film Festival è stato trasmesso
in anteprima mondiale e definito “sensibile e disadorno” ed è stato
un modo di rappresentare questa realtà e lo abbiamo fatto senza
giudizio, questo è importante. Il film racconta la storia da una
parte ma fa vedere anche l’altra ed è questa la complessità di ciò
che sta succedendo nello scenario. Non vogliamo dare dei giudizi
vogliamo raccontare delle storie che purtroppo accadono
realmente.
Credi che essendo un film
del tutto italiano, non ti saresti potuto permettere in un altro
contesto?
A.C.: Tanto cinema in Siria non si fa, per esempio
una cosa che a me e Susan ha spinto inizialmente e che noi italiani
abbiamo del cinema che racconta noi stessi anche per le generazioni
future i siriani in questo caso no. E quindi se non hanno fatto
prima cinema non credo che lo faranno adesso, dove le strutture
produttive non lo permettono facilmente.
S.D.: è un film che molti scambiano per
documentario, non è un documentario ma ha un valore
documentaristico sicuramente importante.
Sara e Dana come vivete
questo rapporto molto stretto di Italiane e damascane?
Dana Keilani: Io devo dire la verità, molte cose
le ho approfondite dopo lo scoppio della guerra, molte cose non se
ne parlavano in casa, non si parlava di questo. è vero che io ho
sempre vissuto qui per un periodo con i miei genitori, inseguito
loro sono ritornati a Damasco e sono rientrati da poco. Non avevamo
le idee chiare dal punto di vista politico in Siria, è una specie
di delusione, vedere il nostro paese ridotto in queste condizioni
proprio da quelle persone che non pensavamo potessero fare
questo.
Sara El Debuch: Lo stesso vale per me, ho 18 anni,
andavo in Siria ogni anno e di politica non se ne parlava e quindi
molte cose come Dana ha precisato sono dovuta andare a rivederle a
sapere perché certe cose non si sapevano a meno che tu non avessi
subito qualcosa nell’ambito politico. Inseguito ho conosciuto
Alessio, che fortunatamente ha fatto questo film e siamo riusciti a
raccontare la storia di queste due ragazze che mostra a tutti gli
italiani cosa accade in Siria e cosa si sta vivendo, in piccola
misura, perché non si può mostrare in un film la sofferenza di un
popolo che va avanti da circa tre anni.
Come sono state scelte
le attrici?
A.C.: Questo è un film molto fortunato, è
miracoloso a fare un film del genere, non ho dovuto fare tanto
casting perché ho avuto tanti angeli custodi che mi hanno
accompagnato, la prima persona che mi ha aperto le porte della
comunità siriana è stata Susan, da lei ho conosciuto molte persone
tra cui Sami Haddad Abdul Ahmed e Sara El Debuch e inseguito lei mi
ha portato a conoscere Dana, da entrambe ho conosciuto Wasim che
inseguito mi ha fatto conoscere Jamal! Ovviamente ho conosciuto
molte altre persone però anche gli attori hanno fatto il
casting.
S.D.: Nel casting l’oggetto discriminate è che
dovevano essere siriani e quindi parlare siriano e non arabo, non
valeva un egiziano o un tunisino, questo era l’importante.
Come è nato il rapporto con
la comunità siriana? Non c’era la paura che questa vicenda fosse
strumentalizzata?
A.C.: Loro si sono presi il rischio di chi non ha
voce, loro hanno poca voce, hanno creduto ad una persona che
umilmente ha provato a dargli voce, non sono Fellini, Antonioni o
Rosi ma ci provo. Non so se loro sono intelligenti o stupidi ma si
sono fidati…
D.K.: …è stata una grandissima occasione,
l’abbiamo sfruttata subito, di poter portare questa tragedia qui
che ciocca in prima persona, la nostra famiglia è lì. Poi non solo,
parliamo di storia, architettura, vite umane che dovevamo parlarne
in qualche modo e questa è stata un occasione perfetta.