Road to Oscar 2014: la migliore regia

Il premio per la migliore regia è forse uno dei più vicini al concetto di “cinema” in quanto tale, destinato a chi riesce meglio a muovere i fili della pellicola. Un illustre riconoscimento che può mettere in mostra la bravura e la meticolosità di un regista, che magari, anche trovandosi di fronte a storie più o meno deboli, riesce ad esaltarle con la propria mano, aggiungendo quel tocco in più che lo contraddistingue. In questa edizione abbiamo a che fare con titoli a loro modo tutti interessanti, per motivi diversi: che siano le sperimentazioni contenute in regie meno standardizzate come quelle di Alfonso Cuaròn o Alexander Payne ed in parte anche di Steve McQueen; oppure un dinamismo più acceso come nel caso di David O.Russell, o ancora una mano esperta e consapevole come quella di Martin Scorsese, tutte le pellicole candidate hanno ragionevolmente degli aspetti interessanti da sottolineare.

 

Alfonso Cuarón per Gravity Ha già vinto il premio per la Miglior Regia ai BAFTA, ai Golden Globes ed è il grande favorito anche agli Oscar. Perché in film come Gravity, il discorso registico occupa una posizione di sicuro rilievo. Quella che comunemente potrebbe essere definita come una pellicola statica, lenta, per qualcuno noiosa, privilegia invece una magnifica espressione registica, in una minuziosa attenzione verso il movimento di macchina, mai lasciato al caso. In un film quasi privo di attori, per larghi tratti di dialogo e di azione, nel senso più dinamico del termine, all’immagine va conferito il ruolo principale. E per farlo, c’è bisogno di non abbandonarla mai. Ecco perché Cuaròn utilizza pochi stacchi e mai lo schermo nero. Anche quando c’è bisogno di cambiare situazione, di cambiare scena, non c’è mai spazio per uno stacco improvviso o una dissolvenza, ma il regista è capace di restare anche per minuti e minuti fermo su qualcosa, prima di riprendere il movimento. Come un continuum fluttuante che non deve interrompersi mai. I lenti movimenti di macchina e i lunghissimi piani-sequenza, si muovono per davvero in modo “lento”, ma sono talmente avvolgenti che risultano incessanti. Quindi non siamo di fronte soltanto ad un discorso di effetti speciali, ma ad una orchestrazione dell’impatto visivo, talmente curata da diventare poesia.

Cuaròn sa utilizzare la macchina da presa ora per risaltare e documentare quanto più possibile dell’immensità spaziale; ora per  spostarsi dentro alle sensazioni umane del personaggio, lasciando la strada al sacro e al sovrannaturale, con una regia che diventa in questa circostanza quasi intima. Ci sono poi finezze per l’occhio, come un movimento di macchina circolare che ruota per 360°, richiamando il moto rotatorio della terra. Insomma, l’attenzione per il dettaglio in tutte le sue componenti che il regista messicano ha palesato, fanno di Gravity una poesia, dove Cuaròn sa dove e quando scrivere le rime.

Alexander Payne per Nebraska – Ciò che inevitabilmente balza subito all’occhio nel film di Payne, è il bianco e nero della fotografia. Una scelta che potrebbe etichettare il regista come alternativo a tutti i costi. Ma non ci sembra questo il caso, perché in Nebraska il bianco e nero è utilizzato per conferire maggior significato all’immagine e per arrivare a quell’impatto visivo freddo e distaccato che, probabilmente, era nella mente del regista sin dai primi pensieri sul film. Un racconto che si svolge quasi sempre con una visuale in terza persona, favorendo raramente una qualunque identificazione coi personaggi e alimentando un senso di distacco dall’azione principale. Il tutto porta ad una staticità di fondo, ma si identifica anche con la caratterizzazione dei personaggi, poveri di emozioni, o meglio poveri nel manifestarle. Dunque avremo sempre dei campi medio-lunghi, rarissimi primi piani che entrano nel cuore dei protagonisti, pochi movimenti di macchina. Per non parlare poi dei dialoghi, ancora più freddi e scarni. I privilegi sono donati alle inquadrature fisse, che riprendono anche lo snodo di più azioni contemporanee, senza necessariamente seguirle tutte. Un senso poi generale di lentezza, che qualcuno troverà noioso e inconcludente, ma fortemente voluto. Siamo nel campo del non-utile, del contrario di necessario, ma non del superficiale: qui c’è una regia che non ha paura di mostrare soprattutto quello che non serve e che non è utile alla narrazione del film, ma lo fa per una precisa scelta, in linea con il sapore della pellicola stessa.

Steve McQueen per 12 Anni Schiavo – La pellicola che probabilmente strapperà la statuetta nella categoria Miglior Film, potrebbe, almeno a livello concettuale, dire la sua anche per ciò che riguarda la regia. Per un certo verso, avviene quello che succedeva con il Nebraska di Alexander Payne: la regia non ha paura di dilungarsi o di mostrare anche ciò che non serve o che comunque potrebbe essere gestito in modo più avvincente, con stacchi o enfatizzazioni (pensiamo alla lunga scena dell’impiccato). McQueen ha un tocco ed una finezza di fondo, che anche senza far parlare i suoi personaggi, può raccontare molto. Siamo lontani però da un’importanza dell’immagine fine a se stessa, perché ogni scena, anche solo visiva, vuole mirare ad un aspetto di più grande, in un certo senso, già rappresenta qualcosa. Quindi primi piani o inquadrature più ampie sono sempre al servizio di una condizione umana, atta a risaltare nello specifico le differenze che passano tra la pelle bianca e quella nera. Si parte dalla perdita d’identità anagrafica e, passando per violenze fisiche e psicologiche, si arriva alla totale riduzione dell’individuo a “cosa”. Certo, sono aspetti che vengono messi in risalto con un profondo e toccante script, per altro proveniente da una storia vera, ma i fili che muovono l’immagine sono sempre al suo servizio.

Di 12 Anni Schiavo va anche citato il montaggio, specialmente quello sonoro, dove urla, pianti, battiti di mani e persino canzoni, partono da una scena e finiscono in altre totalmente sconnesse dalle precedenti, come a sottolineare una quotidianità della vita in schiavitù che si ripete continuamente. Montaggio si, ma che odora fortemente di scelte registiche.

David O. Russell per American Hustle  American Hustle privilegia un discorso di sceneggiatura (firmata dallo stesso regista insieme a Eric Warren Singer) e di prestazioni attoriali, rispetto ad un discorso registico. Il plot generale si potrà trovare avvincente o noioso, sorprendente o piatto, ben scritto o mancante, ma senz’altro è il piatto forte da presentare agli Academy. Tuttavia, si lascia spazio per qualche goliardica esibizione degna di una mano esperta, che oltre al dialogo e alla storia fine a se stessa, punta anche a regalare delle finezze per lo sguardo. La mano è quella di ‘O Russell, quella vista anche in altre sue pellicole, la stessa del fortunato Il Lato Positivo. Rispetto ad esempio ai diretti concorrenti Gravity o Nebraska, la camera qui è più mobile, l’azione più avvolgente e il movimento generale lascia trasparire un dinamismo molto più marcato.

Sottolineiamo poi il vizio del regista (ma non in senso negativo, piuttosto come marchio di fabbrica) di quei rapidi movimenti di macchina che vanno ad incontrarsi con i volti delle figure umane, una sorta di zoom molto veloci per entrare nel cuore dell’emotività del personaggio. Una regia di questo tipo aderisce meglio anche agli standard di genere, che deve privilegiare il suo essere rapido soprattutto nei dialoghi, misterioso al punto giusto ed avere un ritmo sempre sostenuto, per non cozzare contro punti morti. O.Russel sa gestire con esperienza l’aspetto registico, ma crediamo che almeno agli Academy di quest’anno, venga messo in secondo piano in favore di altri aspetti.

Martin Scorsese per The Wolf of Wall Street –  La parola chiave per Scorsese in questo film è “eccessivo”. Eccessive sono le situazioni che vengono presentate nella pellicola; eccessivo è il linguaggio utilizzato; eccessivo è l’utilizzo rapido del montaggio; eccessivi ed estremizzati sono gli usi di droga, alcohol, prostitute, soldi e quant’altro. Cosi, doveva essere eccessiva anche l’immagine in sé, che non perde occasione per abbracciarsi da tutti i punti di vista, alternando sequenze molto lunghe, dominate da dialoghi irriverenti, a spezzettature per rappresentare al meglio l’esagerato caos che ruota intorno a Di Caprio e company.

Scorsese è troppo consapevole, troppo esperto per non giocare le carte giuste nelle diverse situazioni e sa che una scena può acquistare un maggiore valore emotivo, se la si esalta con una sapiente regia. Discorsi di qualità e quantità che vanno dosati a puntino per raggiungere un apice visivo. Così una camera fissa può essere tavolta preferita a continui stacchi sui volti dei personaggi, anche se si tratta di una scena di sesso, magari per risaltarne la freddezza dei protagonisti stessi.

Ma almeno in questa edizione degli Academy, riteniamo che anche per Scorsese possa valere il discorso fatto per O.Russell: l’impianto registico generale rischia di scivolare al secondo piano, in favore del lavoro attoriale (Di Caprio su sutti) o più in generale di una complessità della sceneggiatura, rappresentata da un ampio arco narrattivo, dall’ascesa alla caduta di un protagonista. O ancora, questa eccessività ostentata in tutti i suoi aspetti, forse rischia di penalizzarlo in toto ad Hollywood.

Per i bookmakers, Gravity ha già la vittoria in tasca: scommettendo 1 euro, ad esempio, si vincono 1,08 cent. (al netto 8 centesimi). Del resto un film che ripone le sue forze in modo così determinato nell’immagine, non può passare inosservato dal punto di vista registico, specie quando la mano che guida il tutto è così attenta al dettaglio. Già staccato 12 anni Schiavo, che vale circa 7 volte la puntata, ma lo ripetiamo: è altamente probabile che il film di McQueen si porti a casa il premio più ambito. American Hustle vale circa 30 volte la puntata, mentre nelle ultime posizioni troviamo a parimerito Nebraska e The Wolf of Wal Street che valgono 70 volte tanto. Sembra non esserci partita. Prima di emettere verdetti, l’imperativo categorico è aspettare la notte del 2 marzo.

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