La terrificante storia vera dietro alla serie Netflix Il Mostro

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Con Il Mostro, Netflix riapre una delle pagine più oscure e controverse della storia italiana: quella del Mostro di Firenze, un nome che evoca ancora oggi paura, mistero e inquietudine. La serie, diretta da Stefano Sollima, non è solo una ricostruzione dei delitti che terrorizzarono la Toscana tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta, ma un racconto sulle ossessioni di un Paese, sulle ombre di un’epoca e sull’impossibilità di dare risposte definitive a un caso che continua a dividere opinione pubblica e studiosi. Sollima sceglie di restituire la complessità del mito e della cronaca, alternando fedeltà storica e libertà narrativa, in una rappresentazione cupa e viscerale dell’Italia di quegli anni.

Gli omicidi del Mostro di Firenze: una lunga scia di terrore

La serie affonda le sue radici nei fatti reali che sconvolsero la provincia fiorentina. Tra il 1968 e il 1985, una serie di sette duplici omicidi colpì coppie appartate nelle campagne, spesso durante momenti di intimità in automobile. Le vittime furono sempre giovani uomini e donne, uccisi con una pistola Beretta calibro 22 Long Rifle e colpiti con precisione spietata. Le modalità dei delitti — la scelta dei luoghi isolati, le mutilazioni inflitte ai corpi femminili e la meticolosità dell’assassino — suggerivano un profilo disturbato, ossessivo, ma anche incredibilmente lucido.

Il primo omicidio attribuito retroattivamente al Mostro risale al 1968, quando Barbara Locci e Antonio Lo Bianco furono trovati senza vita nei pressi di Signa. Il figlio di lei, il piccolo Natalino Mele, venne ritrovato vivo, confuso, abbandonato a pochi chilometri dal luogo del delitto: un dettaglio che colpì profondamente l’opinione pubblica e diede inizio alla leggenda nera. Dopo alcuni anni di apparente silenzio, la scia di sangue riprese nel 1974 e si protrasse fino al 1985, trasformando il Mostro in una figura quasi mitologica, un simbolo del male nascosto tra le pieghe della provincia italiana.

L’indagine infinita e l’enigma dell’assassino

Le indagini furono tra le più complesse della storia giudiziaria italiana. Centinaia di sospettati, decine di piste, migliaia di pagine di perizie, intercettazioni, confessioni e ritrattazioni. L’opinione pubblica, alimentata da una stampa spesso sensazionalista, seguiva ogni sviluppo come un thriller a puntate. Tra i sospetti principali emersero nomi come Stefano Mele, Francesco Vinci e, soprattutto, Pietro Pacciani, contadino toscano che divenne il volto mediatico del caso. Arrestato nel 1993, Pacciani fu condannato in primo grado come autore dei delitti, ma la sentenza venne ribaltata in appello e il processo si concluse con un nulla di fatto.

Dopo di lui, finirono sotto processo i cosiddetti “compagni di merende”, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, accusati di essere complici nei delitti. Entrambi furono condannati, ma le loro versioni, piene di contraddizioni e vuoti logici, lasciarono aperti molti interrogativi. Nonostante decenni di indagini, il Mostro di Firenze non ha mai avuto un volto certo, e la sua identità rimane uno dei più grandi misteri della cronaca italiana, al punto da diventare un caso di studio per criminologi di tutto il mondo.

La Toscana degli anni Settanta e Ottanta: paura, moralismo e ossessione

Ciò che rende il caso del Mostro così unico e disturbante è il contesto in cui si sviluppò. La Toscana di quegli anni era un territorio sospeso tra modernità e tradizione: una società contadina che stava lentamente aprendosi alla modernità, ma ancora radicata in rigidi schemi patriarcali e religiosi. I delitti avvenivano in luoghi di intimità e libertà sessuale, e questo contribuì a caricarli di un significato simbolico: agli occhi di molti, il Mostro divenne il “punitore” di una generazione che cercava emancipazione e piacere.

Netflix e Sollima scelgono di restituire questa dimensione collettiva del terrore, mostrando come la violenza non fosse solo quella dei delitti, ma anche quella del giudizio sociale, delle dicerie e dei sospetti che devastarono intere famiglie. Il male, nel racconto della serie, non è solo il killer sconosciuto, ma una comunità intera che, nel cercare un colpevole, finì per sacrificare i propri innocenti.

Tra realtà e finzione: come la serie rielabora il mito del Mostro

Pur ispirandosi fedelmente alla cronaca, Il Mostro utilizza licenze narrative per costruire un racconto corale e visivamente potente. I nomi dei personaggi sono in parte cambiati, alcune vicende condensate o riscritte, ma l’atmosfera resta ancorata alla verità storica. Sollima evita di dare risposte definitive, preferendo interrogare lo spettatore: chi è davvero il Mostro? Un singolo individuo, o l’incarnazione del male collettivo di un Paese in cui istituzioni, stampa e giustizia fallirono nel proteggere i più deboli?

Con una regia tesa e realistica, la serie restituisce la sensazione di claustrofobia e impotenza che attraversò Firenze in quegli anni. Il paesaggio, la luce, il silenzio delle campagne diventano protagonisti tanto quanto gli uomini e le donne coinvolti nel caso. L’obiettivo non è ricostruire il colpevole, ma mostrare il prezzo umano della paura: la perdita di fiducia, la fine dell’innocenza, il sospetto come condizione permanente.

Una ferita che non si rimargina

A distanza di decenni, la vicenda del Mostro di Firenze resta una ferita aperta nella memoria collettiva italiana. Ogni nuova indagine, libro o adattamento riporta a galla le stesse domande: quanto sappiamo davvero? E quanto, invece, abbiamo scelto di dimenticare? Con Il Mostro, Netflix non cerca la verità assoluta, ma la verità emotiva di una nazione che si specchia nel proprio lato oscuro.

Il risultato è un racconto che unisce cronaca e cinema, documento e suggestione, con l’ambizione di trasformare un caso irrisolto in una riflessione universale sul male, sulla colpa e sull’ossessione di sapere. Perché, come suggerisce la serie, forse il Mostro non è mai stato un solo uomo, ma il riflesso di un intero Paese incapace di guardare se stesso.

Redazione
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