Si sviluppa come un gioco di specchi di ammirevole precisione Manhunt, la nuova miniserie di Apple TV+ creata da Monica Beletsky e ispirata dal libro di James L. Swanson Manhunt: The 12-day Chase for Lincoln’s Killer. Il riflesso che impressiona maggiormente è quello della ricostruzione meticolosa di un tragico evento passato al fine di raccontare anche, anzi forse soprattutto, il presente.
Manhunt, l’indagine sul passato per raccontare il presente
Perché in Manhunt molti dei temi trattati e alcuni dei personaggi sviluppati posseggono una loro attualità tristemente inquietante. Primo tra tutti John Wilkes Booth, una psicologia delineata in maniera profondamente contemporanea nella sua sete di gloria, nel bisogno di essere ricordato come un “eroe” pur attraverso un atto vile e sanguinoso come l’assassinio del Presidente Abraham Lincoln. Una figura che aggrappandosi a ideali ultraconservatori e razzisti impersona con pienezza la piaga del fanatismo che sfocia nella violenza. Dietro questo personaggio storico l’occhio attento dello spettatore può riconoscere l’identikit di molti, troppi giovani che negli ultimi anni hanno impugnato un’arma e l’hanno usata contro indifesi seminando morte e terrore.
Ma la serie non si limita soltanto alla problematizzazione di un personaggio, rappresentando al tempo stesso come questo tipo di psicologia possa diventare strumento di morte se manipolata a dovere da menti che hanno invece un piano ben preciso, quello volto alla destabilizzazione della democrazia e dei suoi valori liberali. Ed ecco allora che Manhunt diventa anche discorso altrettanto preciso sul potere della persuasione, sulla logica del potere economico prima ancora che politico, sulla presenza di una vasta porzione di cittadini americani che, allora come oggi, crede nella disuguaglianza come valore fondante della società civile. Insomma, quella aperta dalla Guerra Civile e dal successivo assassinio di Lincoln è una ferita che a conti fatti non si è mai davvero rimarginata, e Manhunt lo mostra e spiega con enorme efficacia.
Un gioco di specchi
Il secondo gioco di specchi, altrettanto convincente anche se contenuto dentro la finzione drammaturgica del prodotto, è quello tra Booth e il protagonista di Manhunt, ovvero il Segretario di Guerra Edwin Stanton che si incaricò della caccia all’uomo ben conscio che in gioco ci fosse molto di più che il semplice assicurare alla giustizia il carnefice di Lincoln. Se come già scritto Booth incarna la violenza razzista e bigotta, Stanton è al contrario un personaggio che fin dal primo episodio si fa depositario sobrio eppure vibrante di tutti i migliori valori, anche quando deve calpestarli per arrivare a ottenere il proprio scopo. Perché sempre e comunque per lui l’unico obiettivo che conta è la difesa di un progetto che porterà la pace nel Paese. Quella vera, non soltanto come antitesi della guerra ma intesa anche come pace sociale, civile, in poche parole umana. Stanton è una figura tratteggiata con poche, poderose pennellate, che lascia parlare le proprie azioni (decisioni) per delinearsi scena dopo scena, episodio dopo episodio fino a farsi indimenticabile.
Superlativi Tobias Menzies e Anthony Boyle
E qui per forza di cose entra in gioco il terzo gioco di riflessi, che coinvolge due attori superlativi quali Tobias Menzies e Anthony Boyle. Il primo, consumato caratterista infatti dipinge Stanton con una stringatezza di mezzi degna delle grandi prove d’attore, capace di esprimere tutto con uno sguardo o una parola trattenuta invece che lasciata andare. Al contrario Boyle esprime l’energia isterica di Booth lasciando trasparire la sua reale mancanza di appigli psicologici ed emotivi, esplicitando con sorprendente profondità una figura che diventa in fondo anch’essa vittima delle menzogne che propone. Se avete ammirato la compostezza umanissima con cui Boyle ha interpretato Harry Crosby nella recentissima miniserie Masters of the Air sempre per Apple TV+, la prova quasi straripante offerta in Manhunt si rivela ancora più convincente. Da segnalare poi la presenza nel cast di altri nomi di lusso quali Hamish Linklater, Patton Oswalt e soprattutto la sempre efficace Lili Taylor, attrice/icona del cinema indipendente anni ‘90 che possiede sempre un posto d’onore nel nostro cuore cinefilo.
In sette puntate studiate e realizzate con una meticolosità narrativa, Manhunt costruisce un ponte fin troppo solido tra passato e presente, mostrandoci con chiarezza quanto gli Stati Uniti siano una nazione ancora alle prese con enormi problemi interni, fratture sociali e civili non sanate, e fattore ancora peggiore una spinta sotterranea alla destabilizzazione interna oggi come ieri capace di scuotere un Paese evidentemente ancora spaccato. Una miniserie imperdibile.