Halloween e Tim Burton: una storia (d’amore) cinematografica

Il rapporto sinergico che lega il cinema alle più svariate festività possiede ormai una tradizione più che secolare, tant’è che non sono mancate in passato – né mancano tutt’oggi – occasioni in cui il grande schermo si è posto nella condizione di vivificare per immagini le atmosfere e i più svariati temi della cultura popolare. Fra le numerose ricorrenze che hanno trovato maggior fortuna e seguito presso la Settima Arte – quantomeno in ambito anglosassone – Halloween ricopre certamente una posizione preponderante, sia per quantità di prodotti audiovisivi realizzati a tema che per influenza culturale diretta o indiretta, e non stupisce affatto che schiere di cineasti, fin dagli albori delle immagini in movimento, abbiano scelto la vigilia d’Ognissanti quale nucleo prediletto per trasporre il ricco immaginario fatto di mostri, spettri e paure assortite che si cela dietro l’innocuo e fanciullesco rituale del “dolcetto o scherzetto”. Ma chi è stato davvero capace, fra i tanti, attraverso la propria concezione cinematografica, di celebrare degnamente la fatidica notte delle streghe al punto da farne un fil rouge poetico-stilistico attraverso cui dare corpo e voce alla propria intera opera filmica?

 

Per tutti i cinefili postmoderni cresciuti a pane, fumetti e B-movie il primo nome che sicuramente sarà balzato in mente è quello di Tim Burton, il timido e bizzarro ragazzo di Burbank, giovane promessa dell’illustrazione presso i laboratori Disney e fin da molto giovane amante di tutto ciò che transita attraverso la sfera del macabro e del fantastico. Un irrequieto e visionario artista postpunk seguace della letteratura perturbante di E.A. Poe così come del ricco bagaglio di atmosfere gotiche proveniente dal cinema espressionista tedesco e dalle celebri pellicole inglesi della Hammer, il tutto condito con una morbosa attrazione per la cultura dei freaks nella quale fantasmi, aberrazioni umane e personaggi al limite dello stravagante vengono declinati sempre in toni fanciulleschi e ironici, il più delle volte all’interno di universi colorati e scanzonati anche quando cimiteri, cripte, castelli e foreste oscure finiscono per deformare gli sfondi della narrazione.

Il grande debito verso l’immaginario di Halloween viene pagato da Burton addirittura ben prima dell’inizio della propria carriera da cineasta professionista, così come testimoniano alcuni cortometraggi amatoriali girati dal nemmeno ventenne cinefilo servendosi di una cinepresa Super 8 e del proprio precoce talento con carta, pennelli e matite. Se le ancora acerbe animazioni a carboncino di The Island of Doctor Agor (1971), ispirandosi al celebre romanzo L’isola del dottor Moreau di H.G. Welles, sprigionano già ben chiaramente l’aura di ossessiva fascinazione verso il mostruoso e il deforme, Doctor of Doom (1979) rappresenta il germe del culto burtoniano verso la figura dello scienziato pazzo di fankensteiniana memoria che troneggerà, sotto varie forme, in molte future pellicole, così come il nuovo (e ben più maturo) esperimento animato di Stalk of the Celery (1979) – primo vero progetto degno di nota realizzato durante il periodo di studi al California Institute of the Arts – raffigura un universo dark fantasy che anticipa di gran lunga le atmosfere perturbante dei manieri e delle scheletriche presenze del disneyano Taron e la pentola magica (1985).

Dopo la piccola parentesi fantascientifica – ma squisitamente orrorifica – di Luau (1982), finalmente Burton rivela chiaramente la propria spiccata visionarietà figlia della festività d’origine celtica con Vincent (1982), precoce ma già maturo capolavoro in stop motion che in poco meno di sei minuti riesce a condensare una struggente ed evocativa fiaba nera – dichiaratamente autobiografica – nella quale un solitario e visionario ragazzino ossessionato dalla letteratura gotica di Poe e dal mito cinematografico di Vincent Price (che, oltre a ispirare la figura del protagonista, presta anche la sua voce narrante) sogna di vivere deliranti e macabre avventure in un universo contrastato in bianco e nero, deformato espressionisticamente e popolato da gatti neri, pipistrelli, spettri e incubi d’ogni sorta, il tutto nelle quattro mura della propria cameretta e nello spazio ancora più ristretto di una fervida fantasia suggestionata dalla poesia Il corvo. Sembra quasi ironico che proprio il 31 ottobre dello stesso anno, mentre Vincent finiva di essere ultimato prima di rimanere poco meno di due settimane in programmazione in uno sperduto cinema di Los Angeles, una misconosciuta emittente televisiva statunitense decidesse di mettere in onda un adattamento in forma di mediometraggio della celebre fiaba Hansel e Gretel ad opera dello stesso Burton, il quale decise di traslare in ambiente nipponico l’intera vicenda con tanto di grottesco combattimento kung-fu finale fra la strega cattiva e i due fratelli sperduti. Seppur lontano anni luce dall’immaginario di Halloween il prodotto rivela alcune precise affinità con il futuro stile visuale delle opere burtoniane più mature, tra cui le già consolidate distorsioni scenografiche espressioniste e un make up alquanto kitsch che sembra prendersi gioco della consueta soggezione che certi personaggi, come le streghe, sono soliti suscitare fra i più piccoli.

Halloween e Tim Burton: una storia (d’amore) cinematografica

Col successivo cortometraggio del 1984 intitolato Frankenweenie – di cui lo stesso regista realizzerà un omonimo lungometraggio-remake in stop motion e in 3D nel 2012 – Burton richiama ancora più dichiaratamente l’attenzione sul profondo amore per l’immaginario gotico d’autore rileggendo la celebre vicenda del Frankenstein di Mary Shelley attraverso una vicenda che vede (nuovamente) protagonista Vincent, solitario ragazzino ossessionato dalle teorie galvaniche che, in seguito a un tragico incidente, in qualità di novello mad doctor decide di rianimare il proprio bull terrier Sparky attraverso il potere dell’elettricità, dando così origine a una versione animale del redivivo più famoso della letteratura. Anche in questo caso, così come in Vincent, seppur l’ambientazione risulti dichiaratamente più reale e “domestica”, la contrastata fotografia in bianco e nero unita all’immaginario laboratoriale di oscuri marchingegni non possono non avvicinare l’opera all’humus narrativo e stilistico tipico della notte più paurosa dell’anno.

Beetlejuice 2La carriera da cineasta professionista di Burton ha fatto più volte ricorso alla matrice narrativa e soprattutto visuale proveniente dalla celebre festività celtica, così come ben si nota fin da Beetlejuice (1988), laddove il tema della casa infestata e dell’esorcismo spiritico vengono ironicamente capovolti e presentati all’interno di un universo macabro e grottesco dai tratti coloratissimi e dichiaratamente fumettistici, un campionario di mostruosità in tinte pastello che preparano già il terreno per le future atmosfere brumose (e al contempo pop) della Gotham City di Batman (1989) e Batman – Il ritorno (1992). In queste due pellicole legate al celebre franchise DC Comics, Burton rilegge il mito dell’Uomo Pipistrello attraverso una personalissima e deformante lente cinefila che lo porta a dipingere personaggi come Jocker e Pinguino attraverso maschere giullaresche che paiono tratte da un campionario di macabri travestimenti infantili, allo stesso modo in cui nei ritmi musical de La fabbrica di cioccolato (2005) sotto la patina zuccherosa e candita di una fotografia multicolore si celano sempre e comunque sprazzi di inquietante perturbazione richiamati dalle consuete distorsioni scenografiche al sapore espressionista che rievocano Halloween.

Se con Edward mani di forbice (1990) le suggestioni gotiche vengono finalmente coagulate in un racconto intenso e struggente che vede sullo sfondo il tema della diversità e il mito della “Creatura” all’interno di oscuri manieri sferzati da pioggia e vento – in antitesi con il folgorante technicolor della cittadina che ospita il protagonista – il più diretto omaggio di Burton all’immaginario poetico e visuale di Halloween lo si ritrova nel celeberrimo Nightmare Before Christmas (1993), fantastica fiaba musicale in passo-uno sceneggiata sulla base delle ossessioni e degli schizzi maturati durante il periodo Disney – ma in verità diretta dall’amico e collega animatore Henry Selick –, una vera e propria celebrazione dell’universo macabro, mostruoso e visionario che domina la festa d’Ognissanti in cui ogni singolo ambiente e ciascuno dei numerosi e grotteschi personaggi che affollano il Paese di Halloween – a cominciare dal protagonista Jack Skeletron, già apparso in un cameo in Beetlejuice – trasudano citazionismo cinefilo e omaggi alla letteratura del perturbante. Destinato a diventare una vera e propria icona della cultura popolare postmoderna e presenza immancabile durante la festività di Halloween, Nightmare Before Christmas possiede come parente stretto ed erede più diretto, tanto a livello tematico quanto per suggestioni estetiche, La sposa cadavere (2005), ennesimo esperimento in stop motion – questa volta firmato direttamente dal regista di Burbank – in cui la matrice di una famosa fiaba del folklore ebraico funge da spunto per una nuova avventura cantata e animata nel bel mezzo di cimiteri, scheletri e presenze fantasmatiche in cerca dell’eterno giuramento di fedeltà matrimoniale, il tutto sempre immerso nelle fitte nebbie di un universo (vivente) contorto e monocromatico in contrapposizione alle follie caleidoscopiche di uno stravagante Aldilà.

Sweeney Todd-foto halloweenIl macabro e il musicale tornano a dominare in simbiosi la filmografia di Burton grazie a Sweeney Todd (2007), torbida storia di vendette e assassini consumati sulla lama di un rasoio da barbiere tratta dal celebre musical di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler in cui le cupe e fumose atmosfere londinesi sempre cariche di pioggia dispiegano ancora una volta l’immaginario gotico letterario – in questo caso il dramma teatrale del 1842 firmato da George Dibdin Pitt – nel quale marciume, sangue e poco raccomandabili pasticci di carne (umana?) confezionano una macabra narrazione degna del teatro grand guignol, allo stesso modo in cui gli spauracchi della buia foresta oscura popolata da streghe e cavalieri senza testa che fuoriescono dallo straordinario romanzo di Washington Irving rendono ad oggi Il mistero di Sleepy Hallow (1999) la pellicola burtoniana più affine allo spirito e alle suggestioni della festività di Halloween. Grazie all’inquietante resa visuale a opera di Emmanuel Lubezki e all’eccentrico personaggio dell’investigatore emo-goth con le sembianze dell’attore-feticcio Johnny Depp, l’ottavo lungometraggio di Burton condensa in sé tutto ciò che di pauroso, suggestionabile e inquietante la letteratura e il cinema possano mai aver prodotto nel corso della propria storia, esattamente l’opposto rispetto al ben poco riuscito Dark Shadows (2012), laddove la narrazione sovrannaturale di matrice stregonesco-vampiresca ispirata dalla celebre soap-opera di Dan Curtis d’inizio anni ’60 viene calata in un patinato e plastificato universo da disco music in cui la debolezza della sceneggiatura e il richiamo “forzato” di star del calibro di Eva Green, Christopher Lee e Michelle Pfeiffer non fanno che portare il pur suggestivo intento iniziale verso terreni alquanto insipidi e manieristi.

Senza dimenticare ovviamente le consuete atmosfere gotico-espressioniste disseminate nel fantasioso biopic di Ed Wood (1994) e le fascinazioni extraterrestri di Mars Attacks! (1996) – dove non manca di certo tutto il sostrato di amore cinefilo per la cultura underground e di serie Z – bisogna attendere il recentissimo Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali (2016) per ritrovare nel cinema di Burton quell’influsso macabro e grottesco virato in affettuosa e ironica simpatia tanto preponderante nelle gloriose opere passate, finalmente un nuovo e fresco racconto di diversità – in questo caso dal sapore letteralmente sovra-naturale – in cui il gusto per l’inquietante fanciullesco e il tanto onnipresente bau-bau trovano forma nelle pieghe di un loop spazio-temporale che imprigiona (e al contempo preserva) le anime e i corpi di essere capaci di cose straordinarie – come pietrificare con lo sguardo, librarsi nell’aria, animare l’inanimato e trasformarsi in qualsivoglia animale –, esattamente come i surreali abitanti dello stereoscopico Paese delle Meraviglie di Alice in Wonderland (2010) piuttosto che i fantastici (e in parte fantasiosi) essere fiabeschi stipati in Big Fish (2003). La magione vittoriana (e dunque goticheggiante) diretta da Miss Peregrine e le suggestive mises fuoriuscite da sbiadite e inquietanti istantanee fotografiche tornano a dare voce alla poetica e allo stile burtoniano confermandone il profondo attaccamento alla cultura visionaria e perturbante che da secoli si ripete sempre uguale nelle maschere e nelle zucche intagliate che ogni 31 ottobre, così come nelle strade che popolano il paese di cui Jack Scheletron è ormai da decenni cittadino onorario, tornano ad affollare ogni metro quadrato d’America, e che già da qualche tempo hanno fatto capolino anche nel nostro bel Paese.

Miss Peregrine’s Home for Peculiar ChildrenBasterebbero da soli i quindici lungometraggi della trentennale carriera di Tim Burton – ad eccezione delle “schegge di follia” costituite da Pee-wee’s Big Adventure (1985), Planet of the Apes (2001) e Big Eyes (2014) – a sviscerare tematiche, atmosfere e suggestioni contenute nello spirito di Halloween, ed è perciò con questa chiara consapevolezza che ogni volta che si ha la possibilità di visionare una delle sue opere si è portati a pensare che lo stesso regista, col suo consueto piglio scanzonato e anticonformista, quasi ci chieda di scegliere fra un dolcetto o uno scherzetto, magari mentre un albero contorto e scheletrico si dispiega al chiaro di luna dinnanzi a noi.

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