Intolerance: i 100 anni del film di David Wark Griffith

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Il potere propagandistico del mezzo cinematografico è stato più volte messo in evidenza nel corso della storia della Settima Arte, cosicché i differenti regimi di potere hanno dato prova di una sempre maggiore attenzione verso le potenzialità fascinatore e spesso subliminali dei messaggi incisi e diffusi su pellicola. Sovente però tale potere di persuasione può pericolosamente sfuggire di mano e portare a risultati del tutto imprevisti e potenzialmente letali. Deve averne avuto gran sentore David Wark Griffith, padre putativo del cinema istituzionalizzato, quando all’uscita del suo titanico e controverso Nascita di una Nazione nel 1915 venne pesantemente accusato da più parti di aver effettuato una terribile quanto inopportuna demagogia a sostegno di una visione revisionista (e dichiaratamente razzista) del mito della nuova fondazione americana durante la Guerra di Secessione.

Pur riconoscendo infatti a tale pellicola un’indubbia rivoluzione linguistica e tecnica destinata a gettare le basi della futura grammatica filmica, gran parte dei critici e  del pubblico dell’epoca ritenne l’opera griffithiana niente più che un saggio nazionalista dalle nemmeno troppo sottese venature xenofobe, e fu tale lo sdegno generale da costringere il fiero cineasta sudista a pubblicare un accorato pamphlet a sostegno della libertà di espressione dal titolo altisonante di The Rise and Fall of Free Speech in America. Ma ciò non venne giudicato sufficiente e Griffith decise dunque di usare a propria difesa ideologica il mezzo d’espressione che meglio conosceva e padroneggiava, speranzoso che, per suo tramite, fosse possibile incidere – questa volta positivamente – nei cuori e nelle menti di quelli stessi spettatori che lo avevano attaccato con tanto odio e rapidità un messaggio forte e indelebile. Fu proprio da tali premesse che, agli inizi di febbraio del 1916, vide la luce Intolerance, pretenzioso e didascalico j’accuse cinematografico rivolto contro ogni forma d’intolleranza sviluppatasi nel corso della storia dell’umanità, un film divenuto giustamente celebre più per le proprie titaniche e innovative soluzioni tecnico-registiche piuttosto che per il suo ostentato e ormai inopportuno messaggio pacifista.

Partendo da un’evocativa epigrafe del poeta americano Walt Whitman contenuta nel poema Out of the Cradle Endlessly Rocking e ripercorrendo a ritroso le più significative forme di persecuzione dalle origini dell’Uomo alla contemporaneità, Griffith decise di utilizzare quattro eventi chiave ben noti nella storiografia e nella cultura popolare quali esemplificazioni della violenza e della paura del diverso perpetrata in oltre 2500 anni, impegnando mezzi tecnici e strutture linguistiche per l’epoca considerati all’avanguardia e scegliendo di riproporre i proto-generi cinematografici allora maggiormente in voga. Si inizia con lo struggente racconto di uno sciopero urbano alle soglie del 1914 (basato sul filone del dramma sociale di denuncia con alcune inclusioni che anticipano il gangster movie), si prosegue con una torbida storia d’amore in costume fra le imponenti scenografie della caduta di Babilonia (ispirata al genere storico-mitologico e al proto-peplum), si transita nelle raffinate e teatrali vicende francesi della Strage degli Ugonotti (la celebre Notte di San Bartolomeo già portata più volte sullo schermo dalla Film d’Art francofona) e infine l’immancabile Passione di Cristo (molto in voga nel filone cattolico-moraleggiante fin dalle origini).

In ciascuno dei quattro racconti di cui è strutturato Intolerance, ambientati in spazi e tempi differenti, Griffith utilizza la consueta strategia delle narrazioni individuali di gente comune dipanate sullo sfondo della Storia ufficiale, interconnettendole efficacemente mediante due differenti tecniche sintattiche che verranno in seguito perfezionate e reimpiegate con grande fortuna nel linguaggio cinematografico ori maturo. Mentre il montaggio alternato (già proposto pionieristicamente in Nascita di una Nazione e nei cortometraggi del periodo Biograph) permette infatti al regista di relazionare i vari episodi storici da un punto di vista puramente visivo – soprattutto nel concitato finale in cui le varie azioni si sovrappongono in un vortice d’immagini che riproduce il marchio di fabbrica griffithiano del last minute rescue (il salvataggio all’ultimo minuto) – il montaggio parallelo (in seguito portato a maturo compimento dal “cinema di montaggio” di Éjzenštejn) consente di legare fra loro accadimenti filmici differenti mediante un unico nucleo tematico di riferimento, in questo caso l’intolleranza e la paura dell’altro. Tali espedienti di “tessitura” visiva e narrativa in forma pseudo-capitolare saranno in seguito ripresi integralmente da moltissimi altri registi e costituiranno un vero e proprio modello a cui ispirarsi, così come accadde a un giovane Charl T. Dreyer con Pagine dal libro di Satana (1920).

Intolerance: i 100 anni del film di David Wark Griffith

A segnalare in maniera lirico-evocativa il passaggio da una scena all’altra è presente poi l’inquadratura di una giovane donna velata dalle sembianze dichiaratamente mariane (interpretata dall’attrice-feticcio Lilian Gish) intenta a dondolare una culla (un richiamo al tempo che scorre inesorabile) mentre sullo sfondo tre vecchie donne (le tre mitiche Parche) assistono immobili e dolenti alla Storia che fluisce. L’inquadratura di Intolerance, riproposta ben 26 volte nel corso della narrazione alla stregua di un tableau vivant, si ritiene abbia dato vita a una nuova forma di giustapposizione filmica denominata montaggio per leitmotiv, in quanto si assiste per la prima volta alla presenza di un’unica immagine ricorrente che funge da coagulatore visivo-tematico degli eventi rappresentati. Fu proprio tale accorgimento che portò molti critici dell’epoca a definire Intolerance non più un film “in prosa” come lo era stato Nascita di una Nazione ma bensì “in poesia”, in quanto Griffith preferisce in questa sedetralasciare la struttura meramente narrativa in nome di un messaggio evidentemente simbolico.

Oltre a un massiccio uso di mascherini (le coperture in grado di circoscrivere la porzione visibile dell’immagine) per la prima volta a puro scopo narrativo e un uso del primo piano finalmente del tutto “psicologico” e non più asservito all’antica necessità di avvicinamento dello sguardo spettatoriale, Intolerance fa sfoggio di un impianto scenico impressionante, sia per il numero di comparse impiegate (decine di migliaia per ciascun episodio) che per le accuratissime scenografie, sulle quali spicca l’imponente e faraonica corte babilonese costruita interamente in cartapesta alle soglie di Sunset Boulevard – su modello, per stessa ammissione di Griffith, del titanico set italiano di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone – e conservata intatta come quasi tutti gli altri scenari prima che nel 1919 un presunto pericolo d’incendio ne imponesse la totale dismissione. Alcune leggende dell’allora giovane Hollywood raccontano che per gestire le coreografie degli attori e guidare i complessi movimenti di macchina Griffith avesse addirittura fatto costruire un ascensore di oltre trenta metri da cui impartire le varie indicazioni tramite un potente megafono, così come si narra di fantasiosi e complessi carrelli elevatori in grado di condurre la cinepresa verso alture e posizioni del tutto impensabili, esattamente come ricostruito dai fratelli Taviani nel nostalgico e trasognato Good Mornig, Babilonia (1987), autentico saggio sulla genesi dell’opera di Griffith vista dal punto di vista di due giovani carpentieri fiorentini emigrati.

Numerosi furono i nomi e i volti noti che collaborarono attivamente a questo ambizioso progetto filmico, a cominciare da Billy Bitzer, storico operatore e direttore della fotografia griffitiano e autore di pioneristiche soluzioni tecnico-visive, passando poi per l’aiuto regista (e lui stesso futuro eccentrico cineasta) Erich von Stroheim, lo sceneggiatore Tod Browning (futuro regista di apprezzati horror targati Universal) e gli scenografi Walter L. Hall e Frank Wortman, tutti professionisti navigati capaci di far vivere autentici sogni a occhi aperti su pochi millimetri di celluloide.

Prodotto e distribuito dalla Triangle Pictures – germe della futura MGM contenete al suo interno la divisione Fine Art dello stesso Griffith e la celebre Keystone di Mack SennettIntolerance uscì negli Stati Uniti il 5 settembre 1916 nell’originale edizione da 210 minuti (oggi edita in parte solo in una versione portoghese) e si rivelò un sonoro fiasco sia di botteghino che di critica. Giudicato troppo lungo e al contempo eccessivamente pretenzioso, il film venne accusato, esattamente come il suo “maledetto” predecessore, di demagogia “alla rovescia”, ovvero di essere portatore di un inutile e inopportuno messaggio pacifista alle soglie della campagna statunitense durante la Grande Guerra. La cattiva pubblicità e il rapporto negativo degli incassi ottenuti portarono al fallimento della Triangle nel 1917 e costrinsero Griffith – dopo aver fondato insieme a Douglas Fairbanks, Mary Pickford e Charlie Chaplin la United Artists – a rieditare l’intero prodotto in due pellicole indipendenti, una riferita all’episodio contemporaneo e l’altra a quello babilonese.

Nel corso del tempo si sono succedute numerose versioni “apocrife”, tra cui un’edizione da 178 minuti per il mercato inglese, una da 197 e da 123 minuti rispettivamente per l’home video e la televisione spagnola e infine una pubblicazione semi-ufficiale argentina da 175 minuti, ma nessuna in grado di ricomporre la visione originale voluta dal proprio autore. Ed è proprio nel puro spirito di filologia cinematografica e in concomitanza con la celebrazione del tanto atteso centenario che CG Entertainment ha deciso di avviare un ambizioso progetto di restauro di Intolerance nel tentativo di ripulire l’opera dal logorio del tempo e riportarla a una versione quanto più possibile fedele a quella originariamente progettata, filmata ed editata da Griffith, con in più il vantaggio di una risoluzione 4K derivata dai negativi originali e tutta la qualità del moderno sistema Blu-ray. Affinché ciò sia possibile è però richiesto l’intervento diretto del pubblico: dal 7 ottobre al 4 novembre è infatti possibile prontare in anteprima una copia del prezioso cofanetto celebrativo, in modo che, al raggiungimento delle 300 richieste, i laboratori CG possano dare il via alle procedure in grado di restituire l’integrità (e la dignità) visivo-narrativa a una delle opere capitali della storia del cinema internazionale. È dunque solo con lo sforzo di oggi che le memorie di ieri possono tornare a brillare di gloria, tanto su uno schermo cinematografico quanto fra sottili contorni un display full HD ultrapiatto.

Matteo Vergani
Matteo Vergani
Laureato in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, studiato regia a indirizzo horror e fantasy presso l'Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma. Appassionato del cinema di genere e delle forme sperimentali, sviluppa un grande interesse per le pratiche di restauro audiovisivo, per il cinema muto e le correnti surrealiste, oltre che per la storia del cinema, della radio e della televisione.
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