La regia al femminile alle origini del cinema

Un famoso detto, diffuso nella Hollywood degli addetti ai lavori sin dai gloriosi anni ’30, afferma che il cinema americano è stato fondato in realtà da donne, ebrei e immigrati. Tralasciando la più che evidente connotazione xenofoba e misogina di base, tale affermazione non può che trovare un forte riscontro in tutte le sue tre dimensioni fondamentali, a dimostrazione di come, in particolare nel mondo dell’arte, molto spesso le dicerie e i luoghi comuni tendono ad affondare le proprie radici in un qualche sostrato di verità. Se grandi autori, di chiara origine europea del calibro di Otto Preminger, Frank Capra, Billy Wyilder e Duglas Sirk riuscirono a portare alla luce il mito tutto americano del self-made director e a far brillare di gloria in tutto il mondo la cinematografia a stelle e strisce, il ruolo femminile all’interno dei vari settori della settima arte è stato a lungo sottovalutato e tenuto all’oscuro delle cronache più o meno ufficiali, riuscendo fortunatamente a tornare a far sentire la prioria voce soltanto a cavallo degli anni ’70 e ’80 del Novecento, grazie soprattutto alla sinergia fra gli studi di riscoperta delle modalità produttive e fruitive del cinema delle origini da una parte e la corrente delle teorie filmiche di matrice femminista dall’altra.

 

Non è per nulla un segreto a esempio il fatto che il corpo femminile fosse divenuto fin da subito un soggetto cardine e appetibile nelle prime vedute animate di fine XIX secolo, così come dimostrano le numerose “danze serpentine” di chiara matrice erotica interpretate da celebri proto-dive provenienti dai cabaret e dai teatri di vaudeville, come per esempio Amy Muller e Annabelle Whitford Moore, allo stesso modo di alcuni dei primi proto-generi cinematografici denominati “film dal buco della serratura” – o in maniera ben più esplicita “film dei guardoni” –, tutti precedenti all’introduzione dei primi sistemi di censura e tarati su un più che dichiarati intento voyeurista e licenzioso. In realtà però, oltre che come soggetti prediletti, le donne assunsero un ruolo integrante (seppur in sordina) all’interno delle attività di elaborazione delle pellicole, venendo impiegate come manovalanza attiva all’interno di alcune delle prime case produttrici – come ad esempio la Star Film di George Méliés e la Edison Company – per colorare manualmente i singoli fotogrammi attraverso alcune tecniche primordiali quali il pochoir (il celebre processo “a tampone”) e il più evoluto viraggio. Gli stessi fratelli Lumiére, infatti, usarono parte delle operaie assunte nelle loro fabbriche di prodotti fotografici per sviluppare, colorare e confezionare i propri film.

In seguito all’evoluzione dello studio system hollywoodiano, a partire dalla metà degli anni ’10, furono appunto le donne a ricoprire compiti di sempre maggiore responsabilità e competenza all’interno delle crews dei grandi studios, tra cui spiccano la figura della segretaria di edizione (non a caso ribattezzata in seguito “script girl”), quella di costumista e soprattutto di montatore, uno dei ruoli fondamentali del processo di post-produzione e che divenne, soprattutto a cavallo degli anni ’40 e ’50, vero appannaggio femminile e che avrebbe dato luogo a una lunga e florida tradizione. Se il celebre sodalizio fra Martin Scorsese e Thelma Schoonmaker può essere considerato come una delle formule più celebri e vincenti in tal senso, allo stesso modo si spiega la tendenza dello stesso Hitchcock a volere accanto a sé la moglie e collaboratrice Alma Reville durante le sessioni in moviola, poiché egli riteneva essenziale un attento occhio femminile durante la fase più delicata dell’intera creazione filmica.Alma Reville hitchcock femminile

La celebre teorica del cinema tedesca Lotte Eisner, oltre a riconoscere l’indubbio valore della figura della diva incarnato da celebri interpreti come Pina Menichelli, Lyda Borelli, Francesca Bertini, Asta Nielsen e Louise Brooks – in quanto unico vero ruolo filmico in cui è appunto la donna a dominare per intero la scena e a imporsi sul maschio, inerme al suo fascino –, cercò di dimostrare come già nei tardi anni ’40 si cercasse di rivendicare la centralità della dimensione femminile in quello che appare come il ruolo cardine e più delicato dell’intera produzione creativa e fattuale del film, ovvero la regia. Se pensiamo ad alcune celeberrime e apprezzate cineaste dell’epoca moderna e post-moderna quali Agnès Varda, Marie Huillé, Liliana Cavani, Lina Wertmüller, Kathryn Bigelow, Nora Ephron e Jane Campion non possiamo non rimanere perplessi per come in decenni l’industria del cinema, in tutte le sue correnti ed epoche, abbia tentato di nascondere, e in un certo senso anche di ostacolare, la presenza – per altro ancora oggi abbastanza esigua – della donna in quanto figura in grado di incarnare un ruolo creativo e operativo rimasto si dall’inizio appannaggio quasi esclusivo dell’universo maschile.

I primi accenni di una qualche figura di donna direttamente coinvolta nella fase di progettazione e messa in scena in un prodotto di tipo filmico risalgono addirittura all’epoca precedente l’invenzione del cinema stesso, e vedono come protagonista la ricca ereditiera inglese Lizzie Whitley, moglie dell’inventore francese Louise Aimè Augustin Le Prince, colui che è rimasto a lungo sconosciuto alle cronache ufficiali e che tutt’oggi è considerato come il padre apocrifo della settima arte. Fu infatti proprio la giovane pittrice che, trasferitasi a New York nel 1981 per lavorare nell’istituto per non udenti di Washington Heights, collaborò assieme al marito e all’assistente Joseph Banks nella realizzazione di una primordiale cinepresa a 16 lenti in grado di riprendere fino a 10-12 fotografie al secondo, tutt’oggi considerata come il primo vero dispositivo proto-cinematografico antecedente addirittura al kinetoscopio di Edison e al Cinematograph dei Lumière. Seppur non vi siano ancora prove certe di un suo diretto coinvolgimento nel progetto, è comunque indubbia la presenza e il supporto operativo fornito dalla giovane Lizzie durante la realizzazione del primo filmato della storia ad oggi rinvenuto, una veduta animata di appena tre secondi realizzata da Le Prince nel 1888 proprio nel giardino della famiglia Whitley a Oakwood Grange Road nello Yorkshire, ben presto rinominata Roudnhay Garden Scene. È comunque certo che, dopo la misteriosa e ancora irrisolta sparizione del marito avvenuta nel settembre del 1890 durante un viaggio in treno da Digione a Parigi, fu proprio la determinazione della donna a permettere la prosecuzione delle rivoluzionarie sperimentazioni riguardati le immagini in movimento, tutto prima che gli acerrimi concorrenti americani e francesi prendessero il sopravvento e aprissero definitivamente le porte alla nascita della cinematografia.

Alice Guy-BlachéLa documentazione storica ufficiale è solita in realtà considerare la francese Alice Guy-Blaché come la prima donna ad aver ricoperto ufficialmente il primo vero ruolo stabile da regista all’interno di una delle prime grandi case di produzione europee, la Gaumont, iniziando la sua carriera come semplice segretaria ed esordendo dietro la macchina da presa già nel 1896 con il cortometraggio La Fée aux chouz, realizzato con alcuni spezzoni di pellicola ottenuti di nascosto da rivenditori non autorizzati. Assunta stabilmente alla guida della neonata major d’oltralpe, Alice-Guy ebbe modo di realizzare una decina di pellicole fra mediometraggi e qualche lungometraggio nel periodo compreso fra il 1906 e il 1920, tra cui vanno ricordati i drammi The Face at the Window (1912) e Beneath the Czar realizzati per conto dell’americana Solax Film Company nonché una delle prime pellicole religiose della storia, Naissance, vie et mort de Notre Seigneur Jesus Christ (1906), distribuita in scene a bobine indipendenti. Nel frattempo decise di dedicarsi anche alla carriera di sceneggiatrice e produttrice assieme al marito Herbert, prima di lasciare a Louis Feuillade il ruolo di regista ufficiale della compagnia e ritirarsi a vita privata, imprimendo un segno indelebile all’interno della memoria collettiva del cinema mondiale.

Negli stessi anni in cui in Francia Alice-Guy porta avanti la sua gloriosa fama di pioniera, in Italia è invece la giovane insegnante e modista salernitana Elvira Notari a rompere precocemente i rigidi tabù dell’epoca, decidendo di trasferirsi a Napoli e di fondare nel 1902, assieme al marito fotografo Nicola, la casa di produzione Film Dora – in seguito meglio nota come Dora Film – iniziando a progettare e filmare documentari e cortometraggi di fiction. Passata alla regia di alcuni dei primi lungometraggi tratti da noti romanzi popolari e di cronaca rosa, tra i quali spiccano Il processo Cuocolo (1909), Bufera d’anime (1911) e Errore giudiziario (1913), la Notari si distingue subito attraverso una modalità di realizzazione e gestione del tutto innovativa che prevedeva non solo il pieno controllo di tutte le varie fasi di ideazione e realizzazione dei propri progetti, ma oltretutto l’impiego di rivoluzionari e precoci meccanismi di colorazione e accoppiamento sonoro delle pellicole, oltre alla caratterizzazione di personaggi per lo più scabrosi e anticonvenzionali che le avrebbero causato grossi grattacapi col futuro regime fascista. Estremamente carismatica, oculata esperta di marketing e decisa a gestire personalmente i rapporti con gli organi di stampa e promozione, la Notari realizzò oltre sessanta film dal 1906 al 1929 – alcuni dei quali dei veri e propri successi popolari come ’A legge e ’Nfamia (1924) – fondando inoltre la prima Scuola d’Arte Cinematografica italiana in cui veniva insegnato uno stile di recitazione fortemente naturalistico e agli antipodi rispetto alle caricate performance divistiche ben note a quel tempo. In seguito all’incapacità tecnica ed economica di rimanere al passo con il dilagare delle prime pellicole sonore, la Dora Film chiuse i battenti a inizio anni ’30, venendo convertita in società di distribuzione e continuando a tenere alto il nome della sua donna di successo, colei che ebbe il grande coraggio di dirigere racconti estremamente crudi e profondamente scandalosi secondo gli standard del pubblico del tempo.

Sempre nell’Italia a cavallo degli anni ’10 e ’20 ecco fare la sua comparsa una nuova figura femminile estremamente importante per la storia del cinema quale Diana Karenne, nata in Polonia come Leucadia Konstantin e trasferitasi nel nostro paese nel 1914, divenendo ben presto una delle dive più amate e pagate di tutto il cinema europeo. Estremamente libertina, amante degli sport estremi come il volo e le corse automobilistiche, pericolosamente affascinante e ben dotata artisticamente, la Karenne debuttò sul grande schermo nel 1916 con Passione tziagana di E.M. Pasquali, fondando nel 1917 assieme al fratello David la David-Karenne Film che produsse il suo esordio da regista Pierrot lo stesso anno. Interprete di celebri pellicole quali La contessa Arsenia (1916), Redenzione (1919) e La fiamma e la cenere (1919) in cui riuscì a creare su di sé il personaggio conturbante di una femme fatale vorace e distruttiva, fu anche apprezzata regista e sceneggiatrice di progetti ambiziosi e di chiaro indirizzo femminista come Justice de femme! (1917) e Ave Maria (1920), prima di dedicarsi definitivamente al ruolo di attrice a tempo pieno, anche fuori dall’Italia, dopo l’inizio degli anni ’20. Fu l’unica delle grandi dive italiane a non prendere mai marito, decidendo di rivendicare sempre e comunque la propria libertà personale e creativa all’interno di una società estremamente maschilista e piena di tabù etici e morali. Dopo una florida carriera attoriale e una decina di pellicole da lei liberamente direttamente scritte, dirette e montate, la Karenne si congedò dal grande schermo nel 1939 con Manon Lescaut di Carmine Gallone, morendo tragicamente in seguito alle disastrose ferite riportate durante un bombardamento avvenuto nel luglio del 1940 nella città di Aquisgrana.

Sposandoci in territorio tedesco, il periodo che precede la nascita del cinema sonoro è dominato da due figure di donne capaci di mettere tutta la propria creatività e capacità tecnica al servizio della regia di opere estremamente sperimentali e anticonvenzionali, dimostrando dunque non solo un grande coraggio ma bensì una forte tendenza a infrangere regole sociali e artistiche già all’epoca estremamente fossilizzate. Erna Niemeyer, versatile e prolifica artista capace di muoversi con estrema disinvoltura attraverso le più disparate forme di espressione, divenne già all’inizio degli anni ’20 una delle più apprezzate animatrici europee, sviluppando una rivoluzionaria serie di procedimenti con cui ritagliare e fotografare direttamente su pellicola porzioni di materiali eterogenei che divennero la base per celebri lavori di avanguardia, tra cui vanno certamente ricordati la famosa Dyagonal symphonie di Viking Eggeling e la ben più celebre serie dei Rythmus (1921-1923-1925) di Hans Richter. Allo stesso modo anche la figura di Lotte Reiniger non può passare del tutto inosservata nel panorama del cinema animato, se si pensa ad alcune delle sue più splendide e sensazionali opere grafiche, realizzate mediante l’impiego di elaborate e raffinatissime silhouettes nere su mirabolanti sfondi colorati a mano, tra cui spiccano il capolavoro Le avventure del principe Achmed (1926) e una serie di pellicole ispirate a famosi racconti per bambini come Cenerentola e La bella addormentata nel bosco, entrambi del 1922.

Dalla potenza tutta artigianale dei racconti animati si passa poi alla poetica del documentario, reso più che mai celebre nella neonata Unione Sovietica da Esfir’ Šub, giovane e intraprendente cineasta che fece tesoro delle innovazioni di montaggio messe a punto dai colleghi della Scuola Statale di Cinema di Mosca per realizzare stupefacenti reportage storici dal sapore sperimentale come La fine della dinastia dei Romanov (1927) e La grande strada (1927), entrambi sviluppati mediante un collage di riprese amatoriali e professionali di repertorio, allo stesso modo di La Russia di Nicola II e Lev Tolstoj (1928), dando di fatto i natali al genere tutto di nicchia del “documentario di montaggio”.

In quegli stessi anni Alexandra Khokhlova, fascinosa moglie del celebre cineasta e teorico Lev Kuleshov, dopo aver dato il via a una robusta carriera di attrice attraverso uno stile nervoso e anti-naturalistico – ben rappresentato da alcune pellicole dirette dal marito come Le avventure di Mr West nel paese dei bolscevichi (1924) e Dura lex (1926) – si dedicò anche alla scrittura e alla co-regia di due film alquanto discussi a causa dei loro apparenti contenuti eccessivamente “spinti”, Discendere da un vulcano (1941) e Noi veniamo dagli Urali (1943).

Se in quegli stessi decenni negli Stati Uniti la fotografa Margaret Burke-White tentava anch’essa la strada del cinema documentario di denuncia sociale all’interno del collettivo di sinistra Workers’ Film and Photo League, in Francia ecco emergere la figura eclettica e controversa di Germaine Dulac, prima e unica autrice ad aver non solo avuto accesso diretto a tutte le più importanti forme d’arte (pittura, scultura, fotografia, musica, danza e cinema), ma oltretutto a essere riuscita a imporsi come vero e proprio simbolo della creatività sperimentale europea a cavallo degli anni ’20 e ’30, attraversando trasversalmente – e con grandi risultati – le principali avanguardie cinematografiche del tempo, partendo dalle vocazioni poetiche dell’impressionismo con La souriante madame Beudet (1923), passando attraverso i primordi visionari surrealisti de La coquille et le clergyman (1928) fino a toccare le punte totalmente astratte e anti-figurative del cinéma pur con gli esperimenti plastici di Disque 927 (1928) e Arabesque (1929). Mentre le performance estreme e anticonvenzionali della Dulac non mancavano di dividere aspramente il pubblico e la critica, molto più lineare – ma altrettanto coraggiosa – risulta la produzione di Marie Epstein, sorella del ben più celebre teorico e cineasta visionario (e padre del concetto di photogenie) Jean, la quale fin dal 1928 iniziò a collaborare assiduamente col collega Jean Benoît-Lévy nella realizzazione di drammi estremamente struggenti, polarizzati verso una forte denunce nei confronti del degrado e della povertà sociale, anticipando di fatto la futura corrente del realismo poetico di metà anni ’30. Fra le opere più rappresentative in tal senso vanno ricordate certamente Âmes d’enfants (1928) e Maternité (1929), oltre che il celeberrimo La Maternelle, una delle prime opere filmiche a trattare direttamente il tema dell’abbandono e delle turbe infantili ancor prima di I bambini ci guardano (1943) di De Sica e Sciuscià (1946) di Rossellini.

Marlene DietrichI decenni interessati dall’avvento della dittatura nazionalsocialista e dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale costituiscono per la Germania il periodo di maggior produttività di Leni von Riefenstahl, una delle autrici più controverse e celebri di tutta la storia del cinema internazionale durante l’oscuro periodo delle macchinazioni pre e post bellica, gli stessi decenni in cui la sceneggiatrice Thea von Harbou instaurava col compagno Fritz Lang un forte e proficuo sodalizio sentimentale e professionale. Aspirante ballerina di cabaret costretta a ritirarsi dalla professione a causa di un precoce infortunio, si interessò molto presto alla recitazione durante l’età d’oro del cinema muto, esordendo nel 1926 con il lungometraggio La montagna dell’amore diretto da Arnold Fanck, autore con cui intraprenderà un duraturo legame all’interno di pellicole appartenenti al genere nazionale – all’epoca molto in voga – dei così detti “film della montagna”, tra cui Il grande salto (1927), Tempesta sul Monte Bianco (1930) e Ebrezza bianca (1930). Dopo essere stata in contesa assieme a Marlene Dietrich per il ruolo da protagonista nel celebre L’angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg e aver collaborato con G.W. Pabst in La tragedia di Pizzo Palù (1929), nei primi anni ’30 la Riefenstahl affina grazie a Fanck le sue doti di montatrice e sceneggiatrice, esordendo alla regia nel 1932 con La bella maledetta – da lei anche scritto e interpretato – prima che l’avvento del nazismo le facesse maturare una vera e propria ossessione per Hitler, al quale scrisse in privato per ottenere udienza. Fu proprio il fuhrer che, dopo aver ammirato le straordinarie doti atletiche e tecniche della giovane autrice nel film in doppia lingua S.O.S. Iceberg (1933), decise di affidarle la realizzazione di un cortometraggio con cui immortalare la prima sessione del congresso del Partito Nazista del 1933. Purtroppo, in seguito all’epurazione dello squadrone delle SA durante la celebre Notte dei Lunghi Coltelli, La vittoria della fede venne sequestrato e distrutto, poiché conteneva inquadrare di alcuni dei maggiori capi dell’ex divisione personale del dittatore, comprese le immagini del generale Ernst Röhm. L’anno successivo venne data l’opportunità alla Riefenstahl di girare una nuova pellicola – questa volta un lungometraggio dichiaratamente propagandistico – relativo al secondo incontro ufficiale del partito avvenuto a Norimberga, intitolato Il trionfo della volontà. Grazie alle sperimentazioni tecniche messe in atto attraverso questo ambizioso progetto e ormai capacissima di dirigere addirittura dieci équipe di operatori contemporaneamente, dopo la breve parentesi del cortometraggio I giorni della libertà – Il nostro esercito (1935) dedicato alle forze armate naziste, nel 1938 la Riefenstahl si imbarcò nel titanico progetto in due parti di Olympia, film dedicato alla documentazione degli storici Giochi Olimpici di Berlino e primo grande esempio di una narrazione sportiva realizzata mediante soluzioni visive (ralenti, teleobbiettivi, montaggio in multicamera, carrellate aeree e a bordopista, ecc.) che avrebbero costituito la base per tutte le future immagini atletiche cine-televisive. Il suo stile monumentale e velatamente polarizzato sull’ideologia politica dominante le causarono però numerosi grattacapi durante la fine della guerra, quando, dopo essersi rifugiata in uno sperduto paesino delle alpi svizzere, venne rintracciata e ricondotta in Germania, dove fu l’unica regista – assieme al collega Veit Harlan – ad essere pubblicamente accusata e perseguita con l’accusa di sostegno e favoreggiamento del decaduto regime nazista. Dopo essere rimasta a lungo lontano dai set a causa della sua cattiva fama, la Riefenstahl riuscì timidamente a riaffacciarsi alla professione solo nel 1954 con la regia e l’interpretazione di Tieflad (1954) diradando sempre più le proprie apparizioni pubbliche e professionali ne corso degli anni, concludendo la propria carriera nel 1993 con la celebre rievocazione storica delle proprie imprese nel documentario La forza delle immagini di Ray Müller e l’avvio di un ultimo progetto registico dal titolo Un sogno d’Africa, distribuito postumo nel 2003.

A conclusione di questo parziale excursus dedicato alla gloriosa e semi-sconosciuta storia della regia al femminile, spostando di qualche decade il punto focale della nostra analisi, vale la pena di valorizzare l’operato di una delle poche vere autrici dell’est Europa, la praghese Věra Chytilová, cineasta visionaria ed eclettica passata alla storia per i suoi esordi nei primi anni ’60 – in piena influenza delle nouvelle vague continentali – attraverso pellicole d’avanguardia e ricche di uno stile comico-surreale, tra cui vanno ricordate certamente Qualcosa d’altro (1963), Tavola calda universo (1965) e il grottesco Le margheritine (1966), prima che i fatti della Primavera di Praga gettassero nell’oscurità molti dei suoi lavori, rendendoli reperibili solo nei tardi anni ’80, come accade per Il gioco della mela, realizzato in realtà nel 1976.

Pepi Lucy e bomIl colore rosa, fatte le dovute eccezioni kitsch del cinema di Almodovar, non è molto presente nelle palette delle immagini filmiche, ma lo spirito tutto femminile che questo cromatismo ha saputo (e sa tutt’ora) consegnare al nobile ruolo della regia cinematografica appare indubbiamente uno degli aspetti più belli e sinceri che le pellicole – o i sensori dell’era digitatale – si rendono capaci di restituire ad ogni singolo spettatore, sia esso uomo o donna.

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