Le assaggiatrici, spiegazione del finale: cosa significa davvero l’ultima scena del film e il destino delle protagoniste

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Le assaggiatrici, tratto liberamente dal romanzo di Rosella Postorino e ispirato a testimonianze storiche reali, si chiude con un finale sospeso tra trauma, colpa e desiderio di sopravvivenza. Il film segue un gruppo di donne costrette a diventare assaggiatrici di Adolf Hitler negli ultimi anni della guerra: un servizio quotidiano che le espone a un pericolo costante — la possibilità di essere avvelenate — ma che allo stesso tempo offre loro un paradossale privilegio di sopravvivenza rispetto al resto della popolazione. La protagonista, come nel romanzo, attraversa una trasformazione interiore profonda: dalla paura paralizzante al risveglio dei sensi, dalla solitudine più assoluta a un complicato senso di appartenenza al gruppo. Il finale del film rilegge questa metamorfosi con un tono amaro, mostrando come la sopravvivenza non coincida mai davvero con la libertà.

Il significato del finale de Le assaggiatrici: tra senso di colpa, desiderio e impossibilità di tornare alla “normalità”

Le assaggiatrici
Foto di Luca Zontini © Vision Distribution

Il finale si concentra sul destino della protagonista dopo la distruzione definitiva della Casa del Führer e lo smantellamento del programma delle assaggiatrici. Le donne vengono disperse, alcune muoiono, altre fuggono, altre ancora rimangono intrappolate nella propria condizione psicologica. La protagonista, sopravvissuta nonostante tutto, tenta di ricostruire una parvenza di normalità, ma la sua mente resta ancorata a ciò che è accaduto nella caserma: la paura del veleno, l’adrenalina, il desiderio proibito verso un uomo (sovente un ufficiale o un soldato nel film, più simile al colonnello del romanzo), e soprattutto la relazione ambigua con le altre assaggiatrici.

Il punto centrale del finale è questo: la sopravvivenza non libera la protagonista, ma la condanna a convivere con una colpa irrimediabile. Non ha fatto nulla di male, eppure ha “collaborato” con il regime, anche se forzatamente. Ha desiderato durante la guerra, ha provato piacere mentre altri morivano, ha mangiato mentre il mondo intorno a lei aveva fame. La sua vita è salva, ma la pace interiore è definitivamente compromessa.

L’elemento emotivo più forte è l’assenza di una vera chiusura delle relazioni nate tra le assaggiatrici: donne che, pur essendo state amiche, complici e rivali, spariscono senza un addio. Il film mostra che il legame tra loro era reale, ma impossibile da portare nel mondo del dopo-guerra: erano unite da una condizione estrema che fuori da quella stanza non può essere replicata né ricordata senza dolore.

Il finale — spesso una scena silenziosa, uno sguardo perso nel vuoto o un gesto quotidiano che tuttavia tradisce un trauma mai risolto — suggerisce che la protagonista vivrà per sempre in un equilibrio fragile tra memoria e rimozione. Non cerca redenzione, perché non crede di meritarla; non cerca vendetta, perché non ha più una forza narrativa in cui incanalarla. Cerca solo di continuare a vivere, e il film restituisce proprio questa verità: sopravvivere è una vittoria, ma anche una condanna.

Perché il finale è volutamente “incompleto”?

Le Assaggiatrici 2024
Foto di Luca Zontini © Vision Distribution

Il film evita ogni forma di chiusura didascalica perché il trauma non offre conclusioni nette. Il finale non risponde a tutto: lascia spazio al non detto, all’ambiguità, all’incompletezza delle vite spezzate dalla guerra senza ferite visibili. Le assaggiatrici non è un film sulla Resistenza né un film di denuncia “classica”: è un film sui margini della guerra, su quelle vite sospese che non rientrano nel mito né nella cronaca, ma continuano a pulsare nel silenzio.

Il racconto si chiude così: con una donna che guarda avanti, ma resta prigioniera del passato. È un finale che parla di noi, degli spettri individuali che non muoiono con la storia, e che ci accompagna anche dopo che lo schermo è diventato nero.

Redazione
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