Le assaggiatrici è basato su una storia vera?

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Il film Le assaggiatrici di Silvio Soldini, tratto dal romanzo di Rosella Postorino Le assaggiatrici (At the Wolf’s Table), riprende una delle vicende più affascinanti e controverse della memoria del Novecento: l’esistenza di un gruppo di giovani donne costrette ad assaggiare il cibo destinato ad Adolf Hitler alla Tana del Lupo. Una storia che per anni è stata considerata un fatto storico, ma che oggi viene riletta con maggiore cautela dagli studiosi, perché basata quasi esclusivamente su un’unica testimonianza: quella di Margot Wölk, resa pubblica nel 2012, a 95 anni.

L’opera cinematografica e il romanzo non si limitano a restituire il contesto storico, ma trasformano quella testimonianza in un racconto corale sulle donne durante il nazismo, sul trauma e sulla difficoltà di sopravvivere a una storia che non lascia scampo. Tuttavia, proprio grazie alle ricerche più recenti, è necessario distinguere ciò che appartiene alla verità documentata da ciò che rimane nel territorio della memoria individuale e della rielaborazione narrativa.

Quanto c’è di vero nella storia delle assaggiatrici? E cosa non è mai stato confermato?

Le Assaggiatrici film
Foto di Luca Zontini © Vision Distribution

Margot Wölk raccontò che, trasferitasi in Prussia Orientale durante la guerra, venne prelevata da casa sua e condotta in una caserma vicino alla Wolfsschanze, dove insieme ad altre 14 donne fu costretta a mangiare tre volte al giorno i piatti destinati al Führer, per verificarne la salubrità. Descrisse menù vegetariani raffinati — Hitler era noto per la sua dieta priva di carne — preparati da cuochi professionisti. Narrò inoltre la nascita di un legame di sorellanza con le altre donne e la paura costante che ogni boccone potesse essere l’ultimo.

Questa versione dei fatti, potentissima dal punto di vista emotivo, è rimasta incontestata per anni. Ma lo storico Felix Bohr, autore del saggio Vor dem Untergang: Hitlers Jahre in der Wolfsschanze, dopo tre anni di ricerche negli archivi tedeschi ha affermato che:

  • non esiste alcuna prova documentale dell’esistenza di un gruppo organizzato di assaggiatrici nella Tana del Lupo;

  • nessun segretario, cuoco, ufficiale o membro dello staff di Hitler menziona in alcun resoconto ufficiale la presenza di donne selezionate per assaggiare i pasti;

  • le fonti archivistiche descrivono invece un sistema di controllo del cibo basato su ispettori, regole severe di conservazione e due cuoche ufficiali che assaggiavano ogni piatto.

Lui stesso, però, non accusa Wölk di aver mentito. Al contrario, ammette che la memoria traumatica può distorcere eventi reali, e che alcune parti del suo racconto potrebbero basarsi su episodi veri ma reinterpretati o ampliati negli anni.

Anche il giornalista storico Sven Felix Kellerhoff aveva già avanzato dubbi nel 2014, notando incongruenze sulla dieta realmente servita al quartier generale di Hitler e sulle procedure di sicurezza.

Questo significa che la vicenda è falsa? Non necessariamente. Significa, però, che non può essere verificata al di fuori delle parole di Wölk, e che la storiografia, pur non escludendola del tutto, invita a considerarla come una testimonianza individuale, non un fatto storico confermato.

Cosa racconta davvero la testimonianza di Margot Wölk

Le parole di Wölk, raccolte tra il 2012 e il 2014, hanno comunque un valore straordinario. Anche se non verificabili, offrono uno sguardo intimo sulla vita di una donna nel Terzo Reich: la fame, la paura, la solitudine, la complicità femminile, la violenza maschile. Il dettaglio più drammatico riguarda il presunto destino delle altre assaggiatrici, che — secondo lei — furono giustiziate dall’Armata Rossa quando questa raggiunse il quartier generale nazista. Anche questo episodio, però, non ha riscontri negli archivi storici.

La sua fuga rocambolesca verso Berlino, grazie all’aiuto di un ufficiale nazista, rientra invece perfettamente nella tipologia dei racconti traumatici della fine della guerra: migrazioni improvvise, violenze, distruzioni e sparizioni di interi gruppi civili non documentati.

Il film e il romanzo: fedeli allo spirito, non ai fatti

Le Assaggiatrici 2024
Foto di Luca Zontini © Vision Distribution

Soldini e Postorino compiono una scelta narrativa chiara: aderire allo spirito della testimonianza di Wölk, pur trasformandola in una storia collettiva, simbolica e drammatica. Per questo motivo:

  • i personaggi sono inventati;

  • le dinamiche tra donne sono romanzate;

  • la storia d’amore con un ufficiale è un’aggiunta narrativa;

  • la struttura del gruppo viene semplificata e ridotta;

  • il contesto alimentare è arricchito da elementi che non rispecchiano in pieno i documenti storici.

Ma la finzione non toglie valore all’opera: la arricchisce di significati legati al corpo, al potere e al ruolo delle donne durante il nazismo. Come afferma Soldini stesso: “Anche se la storia non fosse vera in ogni dettaglio, il film parla del potere, della violenza e dell’impatto che queste forze hanno sulle donne.” L’operazione è quindi dichiaratamente narrativa, pur radicata in una testimonianza reale.

Perché la storia delle assaggiatrici continua a colpire oggi

La forza del racconto non risiede nella sua verificabilità, ma nella sua potenza simbolica:
donne obbligate a nutrirsi mentre il mondo muore di fame, trasformate in strumenti di un potere maschile che le usa e le cancella allo stesso tempo.

È una storia che parla di:

  • violenza strutturale sul corpo femminile;

  • sopravvivenza come colpa e liberazione;

  • identità spezzate dalla guerra;

  • memoria che resiste nonostante l’assenza di documenti.

E soprattutto parla di un’epoca — la nostra — in cui i revisionismi tornano a diffondersi, e in cui raccontare il trauma femminile nel nazismo diventa un atto politico oltre che storico.

Conclusione: tra verità, memoria e finzione

La storia delle assaggiatrici non può essere accolta come un fatto storico verificato.
Può però essere letta come una potente testimonianza individuale, che ha generato un romanzo e un film capaci di dare voce a un trauma collettivo a lungo ignorato.

Il film di Soldini non ricostruisce la verità storica in senso archivistico: ricostruisce la verità emotiva di una donna che, per tutta la vita, ha creduto di essere sopravvissuta a qualcosa che nessuno avrebbe potuto comprendere. Ed è esattamente qui che risiede il suo valore.

Redazione
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