Nicolas Winding Refn: l’enfant prodige che veniva dal nord

Nicolas Winding Refn
Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Erano i primi anni ’90 quando Lars Von Trier, Thomas Vinterberg e un’altra manciata di registi danesi formularono le basi per la famosa scuola Dogma 95: cinema verità, ad ogni costo, cercando assolutamente di eliminare dalle pellicole ogni scena superflua tipo quelle di violenza estetizzanti, e per questo, la damnatio memoriae dei generi.

 

Questa sembrava la tendenza dominante del cinema scandinavo, un cinema da sempre attento alla psicologia dei suoi personaggi e al peso delle parole, ma soprattutto dei silenzi, dei “non detti” carichi di significato, dai tempi di Sjostrom passando per il maestro Bergman. Poi, tutto cambiò improvvisamente.

A portare una vera e propria rivoluzione cinefila (e cinematografica) fu un allora ventenne cresciuto tra l’Europa e l’America, New York precisamente: un figlio del mondo pronto a riscrivere le regole del genere (e dei generi) con la sua visione estetizzante, feticistica, quasi pornografica della violenza e delle immagini.

Stiamo parlando di Nicolas Winding Refn, classe 1970, vero e proprio enfant prodige che nel 1996 scrive e dirige il suo primo film facendo breccia nel mondo della celluloide: Pusher è la storia (scandita in base ai giorni della settimana) della “tranquilla” routine di un piccolo spacciatore di Copenaghen, Frank, che crede di potersi arricchire facilmente ed in poco tempo comprando dell’eroina dal terribile trafficante serbo Milo.

Film cupo, al limite del realismo (ben lontano quindi dalla violenza estetizzante e coreografica di Drive e Solo Dio Perdona Only God Forgives) Refn racconta con sguardo fisso e sadico uno spaccato di vita borderline mostrando un interesse non trascurabile per le cronache del “sottobosco” danese e per i personaggi che si muovono al suo interno, piccoli spacciatori, poliziotti, pericolosi boss, prostitute e debitori, un grande circo pulp dove la forza sta proprio nell’impatto visivo, nella capacità di raccontare una storia con economia di mezzi ma regalando un grande impatto visivo.

Alcune sequenze, poi, sono un saggio di cinema: la scena della tortura di un debitore dello spacciatore (ripreso tutto con la camera a mano in un lungo piano sequenza intriso di luci ed ombre espressionistiche) hanno mostrato la qualità registica- e il talento- di questo giovanissimo cineasta.

La sua seconda regia arriva a distanza di pochi anni, nel 1999, quando dirige Bleeder, cronaca di due tristi storie d’amore legate tra loro da esili fili narrativi. Si raccontano, infatti, le vicende di due coppie: Louise e Leo, dove entrambi sono insoddisfatti delle proprie vite ma la scoperta di aspettare un figlio getta lui nel caos spingendolo fino alla violenza cieca e incorrendo nell’inevitabile vendetta del fratello della moglie; l’altra, invece, è la coppia costituita dal commesso di una videoteca, Lenny, timidissimo ed introverso, e dalla cameriera Lea. Il personaggio di Lenny rappresenta un omaggio cinefilo di Nicolas Winding Refn al cinema in generale ma, soprattutto, al cinema che ama, consacrandolo grazie ad una lunga sequenza tra le file degli scaffali ingombri di dvd; un sentito omaggio meta cinematografico al credo di una vita, alle fonti- e ai maestri- che hanno spinto Refn a seguire questa strada. Se in Pusher era la vita dei bassifondi di Copenaghen ad essere raccontata, qui sono storie “di ordinaria follia” ambientate in una periferia degradata, dove la violenza e la tenerezza sono strettamente connesse tra loro, dove l’amore e la morte (Eros e Thanatos) sono due facce della stessa medaglia.

Il primo approccio di “conquista” del mercato americano da parte di Refn risale al 2003, quando firma la regia del surreale Fear X: “surreale” nel senso propriamente “surrealista” del termine, poiché confeziona una pellicola dal gusto lynchiano sospesa tra luoghi e non luoghi, situazioni oniriche e dinamiche che inscenano il processo paranoico critico tipico del sogno.

Harry (interpretato da un magistrale John Turturro) è il guardiano di un centro commerciale ossessionato dalla morte tragica della moglie. Vittima dei suoi rimorsi, continua a visionare incessantemente le registrazioni di sorveglianza del negozio dove è stata uccisa alla continua ricerca del suo assassino. E proprio questo desiderio di vendetta lo condurrà in un viaggio spaventoso e terrificante al confine della realtà.

Refn mette in scena tutto il suo “onirismo” visivo, la maestria tecnica, la perizia fotografica confezionando un prodotto pregevole che rielabora temi e atmosfere tipiche dei film di Lynch senza cadere però nella copia conferme, nella sbiadita imitazione dell’originale. Il cineasta danese riesce a “dare corpo” alle ombre inquietanti del suo protagonista, ma il pubblico non lo premia comunque: il film è un flop al botteghino e, per risollevare la sua “drammatica” situazione finanziaria, accetta di girare un episodio della serie tv inglese incentrata sull’improvvisata detective Miss Marple.

Nicolas Winding Refn 02
Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Solo otto anni dopo l’uscita del primo elemento di una futura trilogia, quindi nel 2004, Refn aggiunge finalmente un altro tassello a questo ambizioso progetto: Pusher II- Sangue sulle mie mani si concentra stavolta su un altro personaggio comprimario del primo film, l’inquietante Tonny (interpretato da uno straordinario Mads Mikkelsen, vero feticcio nelle mani di Refn) il quale, uscito di prigione, ritorna prepotentemente alla propria vita, ma non è così semplice: nessuno lo rispetta ed è oggetto di scherno da parte di tutti, dai suoi scagnozzi a suo padre (pericoloso boss di Copenaghen con il quale ha contratto un ingente debito) fino alla scoperta spiazzante di una paternità inaspettata e casuale grazie ad una prostituta.

Questo seguito, realizzato con fondi economici più sostanziosi rispetto al primo capitolo, va oltre le classificazioni strette e categoriche del “film di genere”: oltre il gangster movie, in realtà mette in scena dinamiche drammatiche, problemi esistenziali e dilemmi etici sullo sfondo di un mondo lurido, sordido e lercio come quello della Copenaghen dei bassifondi malavitosi, una sorta di “girone dantesco” dove i protagonisti si agitano simili ad anime dannate senza tregua né speranza. Per realizzare quest’opera Refn attinge a tutto il suo universo cinefilo, quello che ha sempre amato, rielaborandolo personalmente alla luce di una sua personale poetica delle emozioni.

Finalmente dobbiamo arrivare al 2005 per vedere completata la trilogia di Pusher: con il terzo capitolo, intitolato L’angelo della morte, Refn concentra il suo occhio indagatore sul temibile personaggio del boss serbo Milo, regalandoci un film intriso di violenza, malessere e angoscia: una definitiva discesa negli inferi, fino al girone più in basso piuttosto che una redenzione, dove il malessere psicologico della vita familiare del boss (la festa della figlia) si riflette nella furia iraconda della sua logica criminale (il conflitto con le altre gang nascenti). Nell’universo creato da Refn e dominato da “l’etica dei ladri” non valgono più logiche di vittima e carnefice: tutti sono colpevoli, nessuno è innocente. La violenza domina e regola un mondo a sua volta amministrato da leggi arcaiche e recondite, un universo infernale e dantesco che scandaglia, sempre più a fondo, le ombre e i drammi chiaroscurali dell’animo umano.

La trilogia di Pusher getta uno sguardo decisamente post-moderno, innovativo, sul genere lontano dal sarcasmo e dall’ironia nera delle opere pulp tarantiniane rispolverando, anzi, una tradizione ben più antica che vede in William Shakespeare  u illustre predecessore, con le sue storie “nere” a base di drammi umani, psicologici e storici capaci, però, di sorprendere con inaspettati quanto necessari picchi di inevitabile violenza visiva.

bronsonDopo la prima trilogia, dal sapore shakespeariano, legata a temi quali la famiglia, la paternità, il potere, l’ascesa e la caduta, Nicolas Winding Refn si prepara ad affrontare alle soglie del 2009 una nuova impresa, stavolta concentrandosi su una nuova figura in particolare, eredità di un universo cinefilo più vicino al western ma anche al noir: l’eroe taciturno, schivo, dalla morale ambigua, un personaggio solitario simile ai tanti incarnati da Clint Eastwood nella “trilogia del dollaro” firmata Leone: protagonisti laconici costretti dagli eventi ad agire per cambiare i loro destini, mentre su di loro aleggia un clima di morte e vendetta.

Ma prima di calarsi in questa nuova avventura, Refn realizza una piccola perla che è Bronson (2008) un presunto biopic sul criminale inglese Michael Peterson, detto Charles Bronson per gli “amici”, il più celebre detenuto inglese della storia condannato prima a sette anni per rapina, divenuti in seguito trentaquattro di cui trenta scontati in isolamento, fino alla condanna definitiva all’ergastolo. Un biopic sui generis perché sfugge ad ogni intento morale o di denuncia: l’interesse di Refn non è quello di mostrare al mondo le condizioni delle carceri né tantomeno raccontare la storia- con rassicurante morale- di un uomo che si è perso lungo la via della perdizione: Bronson è un attore, un istrione egocentrico conciato come un clown grottesco, una maschera inquietante che racconta ad un pubblico incredulo la propria storia di “ordinaria follia”, attraverso una lucida ironia e con una parlantina logorroica inarrestabile con la quale ci trascina nel suo mondo come un attore consumato sul palcoscenico, dove però stavolta le luci della ribalta sono quelle della prigione e la violenza l’unica forma possibile di comunicazione e di scambio.

Nel 2009 Refn mette nuovamente le mani su un suo progetto ben lontano dal concetto di “film su commissione” e regala ad una platea di cinefili appassionati Valhalla Rising-Regno di Sangue, un film criptico ed oscuro, per molti ancora un’incognita indecifrabile, per alcuni un puro esempio di “cinefilia autoreferenziale” da parte del regista danese, sicuramente un’operazione coraggiosa e rischiosa. Refn accentua il suo linguaggio estetizzante, la violenza trasuda da ogni inquadratura e le parole si riducono sempre di più lasciando spazio a teutonici silenzi. Il risultato? Quasi un incontro tra Bergman ed Herzog (sotto mescalina, come hanno commentato alcuni); i simbolismi sono innumerevoli e coglierli tutti diventa una sfida; l’aspetto religioso sembra essere il motivo dominante (come si deduce anche dai titoli scelti per suddividere la pellicola in capitoli, à-la-Tarantino): rappresentare lo scontro tra il culto pagano degli antenati nord europei e il cristianesimo eccessivo e dogmatico, velato di fanatismo, dei crociati. Il protagonista, One Eye, eroe muto ma dalle straordinarie facoltà (forse rappresenta Odino stesso, capo degli Dei da un occhio solo che tutto vede) scampa a una condizione di schiavitù per imbarcarsi insieme ad un gruppo di crociati alla ricerca della terra santa. Ma ciò che troveranno, dopo aver attraversato una sorta di limbo infernale avvolto nella nebbia aleggiante intorno alle acque dello Stige, sarà una terra ricoperta da una natura ostile pronta a sopraffarli, o saranno loro stessi a sopraffarsi da soli perché incapaci di conservare un rapporto autentico con le radici, con un mondo primordiale?

La pellicola, anche se complessa e non riuscita al 100%, getta comunque uno sguardo epico su una mitologia lontana e arcaica, avvolta da un sapore mitico e da una paura ancestrale ed indecifrabile.

Nel 2011, alle soglie dei quaranta anni, riprende il suo lavoro sulla trilogia ideale degli eroi silenziosi e ci regala il suo capolavoro, un ottimo compromesso commerciale aurorale con un film “su commissione” che non ha amato dall’inizio, ma che gli ha donato la fama internazionale e un’ampia porzione di pubblico: rielaborando insieme allo sceneggiatore Hossein Amini e ad altri la trama di un romanzo noir di James Sallis realizza Drive, un film atipico, un concentrato shakerato della sua poetica estetica e cinefila, un western metropolitano che riscrive le regole del genere noir ed attinge a piene mani dall’estetica retrò anni ’80 (soprattutto a livello musicale, con eccezionali esempi di synth-pop) e dai film cult di genere anni ’70 come il famoso Drive di Walter Hill o l’angeriano Scorpion Rising. Il film ottiene la Palma d’Oro al 64esimo Festival di Cannes per la miglior regia, con tanto di “benedizione” da parte di Robert – Taxy Driver – DeNiro e la definitiva consacrazione per Nicolas Winding Refn dopo una ventennale carriera.

La storia è quella di uno stuntman part-time, dal passato misterioso e senza nome (interpretato da uno straordinario Ryan Gosling che riduce al minimo i movimenti facciali come un perfetto giocatore di poker, regalandoci una performance e un’ottima prova d’attore) che arrotonda i propri guadagni lavorando nell’officina del suo mentore Shannon, ex stuntman ora invalido, e facendo l’autista per colpi, rapine e furti d’ogni genere. Freddo, controllato e impassibile non vuole sapere niente: lui guida e basta (come dichiara all’inizio del film). Ma le cose si complicano quando si innamora della sua vicina di casa, Irene, giovane madre con un marito in carcere che si ritrova coinvolto in un brutto giro e Driver, pur di difenderla, mette a repentaglio tutto sé stesso.

I primi minuti sono un vero e proprio saggio di cinema: Refn riprende un adrenalinico inseguimento in auto ma dall’interno dell’auto stessa (cosa mai fatta prima) creando un climax di tensione e azione mai visti prima. I titoli di testa flou (in fucsia), la colonna sonora ricercata ma retrò (la bellissima “Real Hero” e lo score di Cliff Martinez), l’estetica noir ricercata che immortala una LA dal sapore lynchiano e un protagonista da antologia che rimane sempre con lo stesso giubbotto argentato con scorpione dall’inizio alla fine del film, creano un gioiello della moderna cinematografia riscrivendo le regole di un genere e creando una nuova mitologia, con al centro un anti-eroe metropolitano, un “cavaliere elettrico” romantico ma pronto ad abbandonarsi a repentini quanto incontenibili scatti d’ira, un personaggio dotato di una morale ambigua contrassegnata da luci ed ombre (come la scena dell’ascensore ben esplicita).

Cavalcando l’onda del successo di Drive (un successo quasi “non voluto” da Refn) il regista, finalmente balzato agli onori della cronaca, si è potuto dedicare al suo ultimo progetto, un’idea più in linea con la sua “poetica visionaria” e cinematografica, un lavoro che apre uno scenario sulle prossime opere che realizzerà in futuro (tipo un remake di Barbarella o un adattamento di una serie a fumetti firmata Moebius- Jodorowski): un film dal carattere orientaleggiante, un altro western in salsa muai-thai, Solo Dio Perdona Only God Forgives, un’altra storia dal carattere epico e incalzante, un’altra discesa negli inferi senza redenzione ma con un tocco più personale e surreale, cedendo a quell’iperrealismo violento e visivo degno del miglior Alejandro Jodorowski (a cui è dedicato il film); anche in questa pellicola ritroviamo Ryan Gosling litico protagonista laconico dall’espressione fissa e dallo sguardo perso che si cala nei panni di Julian, un ragazzo americano trasferitosi a Bangkok per gestire un losco traffico di stupefacenti che fanno capo alla terribile madre interpretata da una camaleontica Kristin Scott Thomas; qui nella città asiatica gestisce un club di thai boxe insieme al fratello Billy, pervertito ben avviato sulla strada per l’inferno, che commette un delitto orribile: uccide e sevizia una prostituta minorenne, scatenando la terribile vendetta del padre, e proprio in questo contesto entra in scena- forse- il vero protagonista del film, un poliziotto (interpretato dalla scoperta thailandese Vithaya Pansringarm) super-partes in grado di giudicare le colpe di tutti, in grado di perdonare o vendicare… un terribile Deus-ex Machina che tutto vede e tutto sa.

only god forgives posterNato dopo un periodo di riflessione esistenziale e di rabbia nei confronti di Dio stesso (Refn dixit, NdA) il film alterna solito montaggio frammentato e caotico, le analessi e le prolessi temporali ad una fotografia mozzafiato quasi esclusivamente notturna (com’era già accaduto in Drive, del resto) e colonna sonora epica che evoca le atmosfere degli spaghetti western di Sergio Leone e dialoghi stringati e lapidari, come se il solito Bergman incontrasse stavolta John Woo.

La vendetta aleggia sulle teste dei protagonisti al quale non si può scappare, come una sorta di debito inestinguibile; a Dio è lasciato il perdono, agli uomini solo la vendetta che passa attraverso la violenza.

E stranamente, proprio il concetto di “violenza” attraversa l’opera di Nicolas Winding Refn: si definisce un “pornografo” perché nei suoi film ama rappresentare tutto senza sconti, senza censure, non nascondendo un piacere latente e sadico nell’assistere a scatti di rabbia cieca ben lontani dalla sua natura nella vita di tutti i giorni; e proprio per questo si definisce pure un feticista, uno a cui piace vedere integralmente ciò che in realtà non farebbe mai, traendone piacere.

E forse è proprio per questo che oltre vent’anni fa fu definito un enfant prodige venuto dal nord e che oggi, invece, è uno dei registi più promettenti, innovativi ed originali del nuovo millennio.

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Ludovica Ottaviani
Ex bambina prodigio come Shirley Temple, col tempo si è guastata con la crescita e ha perso i boccoli biondi, sostituiti dall'immancabile pixie/ bob alternativo castano rossiccio. Ventiquattro anni, di cui una decina abbondanti passati a scrivere e ad imbrattare sudate carte. Collabora felicemente con Cinefilos.it dal 2011, facendo ciò che ama di più: parlare di cinema e assistere ai buffet delle anteprime. Passa senza sosta dal cinema, al teatro, alla narrativa. Logorroica, cinica ed ironica, continuerà a fare danni, almeno finché non si ritirerà su uno sperduto atollo della Florida a pescare aragoste, bere rum e fumare sigari come Hemingway, magari in compagnia di Michael Fassbender e Jake Gyllenhaal.