L’Ultimo Pastore e le sue 600 pecore in Piazza Duomo: intervista al regista Marco Bonfanti

Lo scorso primo di ottobre le redazioni nazionali e internazionali ( Il Washington Post per citarne una) pubblicano una notizia che fa strabuzzare gli occhi ai lettori: piazza del Duomo, a Milano, alle prime ore dell’alba è stata “invasa” da 600 pecore. Incredibile!

 

Chi è l’autore e l’ideatore di “un’impresa” tanto folle quanto singolare? Marco Bonfanti, giovane regista milanese che in questa simbolica location gira l’ultima sequenza del suo primo lungometraggio: “L’ultimo pastore”.

D: Marco Bonfanti, innanzitutto, com’è riuscito a realizzare un’impresa simile?

R: All’inizio nessuno credeva in questa mia idea. Cercavano di scoraggiarmi tutti, forse per evitare che poi ci restassi male o magari che ne soffrissi. Eppure a me non è mai sembrata una cosa tanto folle come mi dicevano. Questa è la cosa più strana. Era come se, dentro di me, dessi per scontato che avrei girato questa scena. Sapevo di voler portare le pecore lì e ho concentrato tutti i miei sforzi in quella direzione. Poi, pian piano, le cose sono venute da sole: il comune, i produttori, la Lombardia Film Commission… Però, nei momenti di difficoltà, e sono stati parecchi, ho sempre tenuto bene a mente una massima di Werner Herzog: “in Fitzcarraldo non sono stati i soldi a issare la nave sulla cima della montagna: è stata la fede”.È una frase che non mi abbandona mai.

D: “L’ultimo pastore” è una docufiction che mescola il cinema del reale con l’ invenzione filmica. A lei però piace definire questo film come una “fiaba”, ci spieghi?

R: Si tratta più di un sentire, che di una cosa scientifica. Ho cercato di girare un film in cui i sentimenti fossero semplici, immediati, puliti. Lego istintivamente tutto questo al concetto di fiaba, ma non credo abbia granché senso. Però mi piace, mi rimanda a qualcosa di sincero e di puro.

D: Quale simbologia rappresenta l’originale scelta registica della famosa sequenza girata in p.zza del Duomo?

R: Si tratta di riconquistare la città attraverso la natura incarnata dall’ultimo pastore rimasto in una metropoli. Penso che la natura si riappropri sempre di ciò che l’uomo le sottrae attraverso le costruzioni; così come credo che l’uomo costruisca tanto per difendersi dall’ostilità insita nella natura. È come se cementificando, l’essere umano si proteggesse da qualcosa di incontrollabile e di minaccioso per sé e per la sua società. Di solito la natura si riprende i suoi spazi con la violenza, ma nel caso del film è un forte gesto poetico a trionfare.

D: Prima de “L’ultimo pastore”, lei ha ottenuto diversi ed importanti riconoscimenti per due cortometraggi: “Le Parole di Stockhausen” ( 2008, pre-selezione al Festival di Cannes) e “Ordalia” ( 2009, una produzione in digitale selezionata in oltre 50 festival internazionali, miglior corto al Priverno Film Festival). Che difficoltà ha incontrato nell’affrontare il suo primo “lungometraggio” rispetto ai lavori precedenti?

R: Già di per sé fare film è un viaggio molto più vulnerabile di gran parte delle altre attività creative. Sono richiesti molti ingredienti, sono coinvolte molte persone e non è facile tenere insieme tutto. A parte le decine di teste in più coinvolte nel progetto, e le riprese effettuate lungo l’arco di un intero anno, tra i cortometraggi e questo lungometraggio non ho trovato grandi differenze: sempre di film si tratta e quindi sono richiesti organizzazione, tempo, soldi, fatica, sudore, pazienza, sacrifici e via discorrendo…

D: “Ordalia” raccontava i tormenti interiori di una giovane che si trova inaspettatamente di fronte ad una tragedia familiare. Si è detto che quel film avesse una forte valenza autobiografica; quanto c’è di autobiografico anche ne “L’ultimo pastore”?

R: Penso molto, anche se non in senso stretto. Non sono interessato a mettermi davanti a uno specchio tramite un film, però inevitabilmente qualcosa di tuo ci finisce dentro sempre. Il film è una visione personale del mondo, specie quando non si lavora su sceneggiature precostituite ma su canovacci.

D: Marco Bonfanti, lei è un giovane regista che tenta, come molti altri, di far emergere il proprio talento e questi primi riconoscimenti sono indubbiamente un grande incentivo ad andare avanti…a non mollare. Ma per un giovane regista italiano, nello scenario di oggi, quanto è difficile fare o tentare di fare questo mestiere?

R: Fare il regista è un’impresa titanica, è un lavoro difficile, faticoso, che dà i suoi frutti, quando li dà, solo sul lungo termine. Solo quelli un po’ matti possono resistere tanto nel tempo. Io vivo il cinema in modo tale da pensare, forse un po’ ingenuamente, che possa migliorare la mia esistenza; e provo una soddisfazione incredibile quando faccio film, tanto da rendermi impossibilitato anche solo a pensare di poter mollare. Sono consapevole che molti registi alle prime armi, magari con capacità e idee migliori delle mie, si arrendono e falliscono ben prima di me. Posso solo dire che ce la metterò tutta…

D: chiudiamo con uno sguardo proiettato sul futuro: quando conta di presentare e dove il suo primo lungometraggio “L’ultimo pastore”?

R: Lo devo ancora scoprire anche io. Forse mi converrebbe cominciare a chiedere a qualcuno della produzione…

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