Disponibile dal 14 Luglio 2021 su Netflix, A Classic Horror Story è il frutto del sodalizio tra i registi Roberto De Feo (The Nest) e Paolo Strippoli. Horror del tutto italiano, la pellicola gioca con gli stilemi tipici del linguaggio del cinema di genere, proponendoci una versione fresca e aggiornata di cosa significhi essere un cineasta oggi; uno sguardo attento e risoluto nei confronti di un veicolo metaforico e rappresentativo di una società e di un tempo.
A Classic Horror Story: l’apologia di un nuovo teatro orrorifico
Proprio come sarebbero le premesse classiche di un film dell’orrore, A Classic Horror Story ci presenta cinque individui, passeggeri di un carpooler che vaga per la Puglia e che, cercando di evitare la carcassa di un animale, come nella più inquietante delle storie, si schiantano contro un albero. A causa dell’impatto fulmineo e violento, perdono tutti i sensi e si ritrovano poi, al loro risveglio, nel mezzo di un bosco labirintico, i cui sentieri confluiscono in un luogo nevralgico: una casa in pieno stile Fratelli Grimm. E’ una casa che ricorda la facciata di una chiesa, dalla struttura geometrica e spigolosa; all’apparenza disabitata, tuttavia con dettagli di arredamento che faranno intendere ai cinque che non sono affatto soli. Iniziano a propagarsi una serie di indizi, tra cui un altare dedicato alla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i “padri fondatori“ della mafia italiana (Camorra, Cosa Nostra e ‘Ndragheta), ma con un aspetto decisamente più inquietante e un’interpretazione della storia dei tre fratelli spagnoli molto più macabra e cruenta dell’originale. I cinque protagonisti, Elisa (Matilda Lutz), Riccardo (Francesco Russo), Fabrizio (Peppino Mazzotta), Mark (Will Merrick) e Sofia (Yulia Sobol) rappresentano tutti i ruoli più archetipici del cinema horror: la final girl, la bionda un po’ superficiale, il cinico maturo, lo stupido belloccio, il freak inquietante e dovranno vedersela con uno scenario sempre più terrificante e inaspettato.
La pellicola di De Feo e Strippoli reinventa gli stereotipi del cinema e del folklore italiano, declinandoli attraverso un gusto estetico internazionale assolutamente concorde con lo spirito della piattaforma di distribuzione Netflix. A Classic Horror Story è un film che fa della ritualità uno degli elementi di matrice tutt’altro che derivativa, bensì assolutamente sovversiva: la casa, il bosco, i fantocci, le maschere; ogni elemento inserito all’interno della cornice drammaturgica è correlativo oggettivo non solo di sottolivelli di analisi di cui il film è intriso, bensì di un modo tutto nuovo di intendere e riproporre il genere, sulla falsariga di quella nouvelle vague che ha preso piede negli ultimi anni in Spagna e Francia e che, ci auguriamo caldamente, riesca a svettare anche nel nostro Paese.
I richiami alle classiche storie dell’orrore sono tanti e atti ad evidenziare il carattere atipico e pioneristico dell’opera di De Feo e Strippoli, nella loro riproposizione perfettamente studiata: il cinema di Sam Raimi, Non Aprite Quella Porta e il Silent Hill di Christophe Gans in primis. Le intuizioni splatter i colpi di scena, l’attenzione metodica ai dettagli quali location e costumi si uniscono inoltre a suggestioni di pellicole più recenti tra cui Midsommar di Ari Aster e Quella Casa Nel Bosco di Drew Goddard; oltre a ciò vi è l’eco ai grandi cineasti che hanno fatto la storia del cinema di genere in Italia quali Bava, Fulci e Argento: tutto questo è funzionale alla rielaborazione tematica e strutturale messa in moto dal duo registico.
L’horror è, per il duo registico, un veicolo, un tramite attraverso cui filtrare un punto di vista sulla realtà socio politica e culturale, come era stato per i grandi maestri degli anni ’70, tra cui figurano George Romero, Tobe Hopper, John Carpenter e Wes Craven. Ma A Classic Horror Story fa molto di più: ogni fotogramma della pellicola è una giustapposizione di suggestioni e idee che vanno ben oltre il mero citazionismo per assurgere a fondamento di una poetica intimista ma universale, suggerita e contemporaneamente ben delineata. La critica sottesa al pubblico generalista tanto quanto a quello appassionato sembra suggerita, eppure finisce per emergere prepotentemente, rivelando come una sceneggiatura arguta e, perché no, anche dai tratti irriverenti, possa costituire la chiave di lettura ottimale per una panoramica globale di ciò che è diventato oggigiorno il cinema horror, soprattutto italiano.
La meta-narrazione di A Classic Horror Story
Pennywise si cibava della paura, come recita una battuta del film; così come noi spettatori andiamo ricercando l’orrido, la paura, il mostruoso da cui essere investiti: ma chi, o cosa è il vero mostro, in un’era in cui la pigrizia e la noia dominano su ogni facoltà intellettuale, in cui è preponderante la presunzione di voler parlare pur non avendo visto o non sapendo niente? Sentenziare su film e prodotti, sulle opere altrui, definendole “vecchie”, “già viste”, è ciò che meglio riesce a fare il pubblico generalista, perennemente insoddisfatto.
Le tracce musicali di A Classic Horror Story – a cura di Massimiliano Mechelli – contribuiscono a delineare uno scenario in cui le minacce sono visceralmente simboliche, i ruoli tipologici e caratteriali si ribaltano continuamente, e le sfumature cromatiche assurgono a deittici esplicitati. Non è da meno il comparto registico, volto totalmente all’incamerare la parabola di un percorso che trova nella cornice orrorifica una rinascita, una dichiarazione d’intenti, un capovolgimento irredentista atto alla risemantizzazione dei concetti di folklore, usanze e simbolismi.
In un panorama del genere, è difficile che nuove voci, quelle coraggiose e sperimentali, riescano effettivamente ad emergere; pian piano è emersa la consapevolezza che sia piuttosto arduo fare film di genere in Italia, quasi a voler automaticamente significare che non siamo in grado di farlo. Ed ecco allora il circolo vizioso di mainstream, pellicole superficiali e senza passione, prive dell’animo di quella di De Feo e Strippoli.
La location della storia, assieme a un lavoro encomiabile in sede di regia, con alcune riprese assolutamente suggestive, contribuisce ad aumentare il senso di smarrimento e claustrofobia generati dalla consapevolezza dell’impossibilità di una via d’uscita e dal costante ritorno a un punto di partenza. Riflessione, questa, imprescindibile per il discorso meta-cinematografico portato avanti dai due registi che, invece, una via d’uscita ce la suggeriscono eccome. Il voyeurismo malato, perverso, che ci fa nutrire costantemente di morte e depravazione è esattamente il punto di partenza per inscenare un nuovo spettacolo orrorifico, per costruire una sceneggiatura di tutto punto, in cui bisogna necessariamente andare oltre: il cui punto di partenza è appropriarsi di ciò che è già stato usato, rimaneggiato, riformulato, ormai considerato materiale scartabili, senza tuttavia fermarsi alla riproposizione in chiave diversa adattandolo al contesto socio-culturale (come poteva essere il pastiche postmoderno).
Si riprendono i topoi del genere, auto-criticandoli e ironizzandoci sopra, proprio perché consapevoli dell’impossibilità di non annoiare un pubblico che ha fatto della noia il proprio mantra di vita e volto alla ricerca sempre di cose nuove. La consapevolezza stessa dello scartare porta paradossalmente al rivalutare. E quale personaggio sarebbe stato migliore di una giovane donna che parte pensando di “scartare” per una rivalutazione invece totalmente inaspettata?