Presentato nella sezione Fuori Concorso di Venezia 75, Aquarela è il nuovo film del regista russo Victor Kossakovsky, che porta stavolta sul grande schermo un viaggio cinematografico sulla bellezza e brutalità dell’acqua. Una vera e propria ode, a tutte le forme da essa assumibili, specialmente quella più selvaggia che sin da subito nel film pone a contrasto l’elemento con l’essere umano.
Essere umano che è destinato ben presto a svanire dalla pellicola, significativamente costretto a soccombere data la disparità dello scontro. L’acqua diventa così prima e unica protagonista del film, invadendo ogni inquadratura della sua mutevolezza. Differenti colori, movimenti, energie si susseguono sullo schermo, e il connubio tra musica heavy metal e le ricche immagini non fa che esaltare il senso di minaccia di cui si vuole investire l’elemento. Grossi blocchi di ghiaccio sembrano muoversi nell’acqua come immensi mostri marini a ritmo di musica.
Girato a 96 fotogrammi al
secondo, il film acquista così una fluidità che appunto ricorda
quella sinuosa dell’acqua, del suo ondeggiare, e questa scelta di
ripresa si sposa perfettamente con ciò che il regista vuole
trattare ed esaltare. Il risultato sono delle immagini e sequenze
di estrema bellezza, che ritraggono paesaggi ora pacifici ora
violenti.
A metà tra il documentario e il film anti narrativo, Aquarela fonda la propria forza sulla messa in scena, su ciò che lo spettatore è chiamato ad ammirare. Dinanzi al film quest’ultimo dovrebbe infatti lasciarsi pervadere dalle sensazioni che esso comunica senza ricercare un filo narrativo, elemento presente anche se in maniera allusiva, ma certamente distraente dall’intenzione del regista di scorrere su chi guarda come, appunto, acqua, in grado di lasciare tuttavia traccia del proprio passaggio.
Nonostante la bellezza di quanto è possibile osservare però, troppo spesso il film si abbandona a digressioni di eccessiva durata, che rallentano il ritmo e la visione, già non favoriti dalla natura del film. Risulta difficile infatti riuscire a non stancarsi presto della pellicola, facendo così arrendere, in più di qualche momento, lo spettatore alla noia piuttosto che al sublime delle immagini. Il limite del film risulta così essere insito nella sua stessa natura, perdendo alla lunga l’attrattiva che aveva inizialmente generato.